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QS Edizioni - martedì 19 marzo 2024

Lettere al Direttore

Un paziente che rifiuta un trattamento è un case report scientifico, non un caso mediatico

di Samuel Mancuso
7 ottobre - Gentile Direttore,
leggo con preoccupazione dichiarazioni incongruenti di giornalisti e colleghi in un contesto tutt’altro che scientifico sul caso di Piedimonte Matese (CE) e la paziente Jehovah’s Witness (JW). Rimango turbato dall’impeto di sentimenti contrastanti che portano un collega a violare su Facebook il Codice di Deontologia Medica (art. 10, 11 e 12) inerente il segreto professionale, la riservatezza dei dati personali e sensibili, tra cui vi sono “le convinzioni religiose e personali” come ratificato dal regolamento dell’Unione Europea 2016/679 e dal nostro Garante per la Protezione dei Dati Personali. “La morte del paziente non esime il medico dall’obbligo del segreto” (art. 10), in un rapporto di fiducia e di cura tra medico, paziente e familiari: un dovere etico prima che giuridico. In contesti così delicati, apostrofare i familiari come “animali rabbiosi” non è indicatore di alleanza terapeutica.

Secondo diverse testimonianze la paziente aveva in realtà 83 anni, non 65 o 70. Questo dato rende ancor più inadeguata e velleitaria la dichiarazione di poter “salvare al 100%” una paziente ultraottuagenaria in urgenza mediante trasfusione, definita “unica soluzione terapeutica”: la certezza del risultato in medicina purtroppo è anti-scientifica. Non a caso condividiamo con i pazienti un consenso informato in accordo terapeutico fatto di percentuali di rischio, mai di certezze.

Esiste una vasta letteratura scientifica su PubMed sul paziente emorragico acuto “when blood is not an option”: il collega non sembra conoscerla o la confonde con i protocolli di correzione dell’anemia cronica. Alti dosaggi di EPO suggeriti in urgenza possono dare risposta clinica in concomitanza al nadir di emoglobina in terza o quarta giornata di ricovero; d’altra parte “l’aumento della pressione” arteriosa potrebbe non essere indicato. I pazienti JW rifiutano emazie, piastrine e plasma, ma accettano emoderivati, fattori della coagulazione, complessi protrombinici, acido tranexamico, fibrinogeno e talvolta crioprecipitato, utili nel controllo del sanguinamento. I volontari di assistenza sanitaria dell’associazione sono informatori scientifici in sede ospedaliera e offrono ai curanti copie di articoli selezionati da PubMed e non pubblicazioni religiose: i delicati casi clinici bloodless hanno una mortalità sovrapponibile al resto dei pazienti sin dagli anni ’70 con un protocollo adeguato.

È difficile trarre conclusioni ora sul caso “mediatico”, non “clinico”, rimbalzato tra Facebook e YouTube. Alcune testimonianze descrivono tre giorni di ricovero critico, un esame gastroscopico forse tardivo e una successiva condotta attendista di due giorni. Non è possibile comprendere la diagnosi, la terapia bloodless attuata, né l’eziologia dell’anemizzazione grave, poco compatibile con “piccole petecchie emorragiche” dichiarate su YouTube. Da dove il sanguinamento? Senza arrestarlo, sarebbe stato possibile salvare la paziente? Qual era il suo assetto coagulativo?

Se la legge 219 del 12/2017 indica che il medico in caso di rifiuto è “esente da responsabilità”, non è tuttavia ammesso “l’abbandono terapeutico” da parte dei curanti “ove possibile assicurare l’assistenza sanitaria indispensabile”. Cos’era indispensabile in questo caso? Questo è compatibile con l’approccio ‘o la trasfusione, o niente’?

I pazienti che esprimono dissenso a trasfusione sono in costante aumento. I protocolli volti a evitare le trasfusioni riducono la mortalità, le complicanze maggiori, le infezioni ospedaliere e abbreviano la degenza. L’insieme di queste raccomandazioni è oggi il Patient Blood Management (PBM), obbligatorio per risoluzione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità dal 2010 (WHA63.12 - 21/5/2010) e dal 2016 dopo emanazione di linee guida del Ministero della Salute tramite Istituto Superiore di Sanità e Centro Nazionale Sangue (LG CNS 05 – 27.10.2016). Dal 2018 la Sapienza di Roma ha istituito un Master universitario in PBM per i professionisti sanitari e la SIAARTI (Società Italiana di Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva) sta promuovendo un programma triennale di corsi regionali di aggiornamento in PBM sino al 2020.

Come ben evidenziato dal collega De Paolis, affrontiamo sfide mediche ed etiche sempre più complesse, ma siamo meno “soli” rispetto al passato: società scientifiche internazionali ci indicano come affrontarle al meglio. Tra queste l’europea NATA (Network for Advancement in Transfusion Alternatives) e le americane SABM (Society for Advancement in Blood Management) e AABB (American Association of Blood Banks). In Italia contiamo molti centri trapiantologici e specialistici bloodless: Torino, Verona, Padova, Pisa, Taranto etc. In USA solo ospedali con percorsi dedicati ai pazienti che rifiutano trasfusioni possono ottenere dalla AABB la qualifica di eccellenza in PBM (Level 1). Può quello che il mondo scientifico internazionale presenta come “eccellenza medica” essere ancora trattato come “fanatismo religioso” in Italia?

Ogni singolo paziente può disporre del “bene vita” per se stesso come desidera, quale diritto fondamentale dell’uomo: per i nostri colleghi d’oltreoceano è un caposaldo dal 1990, anno di ratifica del Patient Self-Determination Act. Oggi un paziente che rifiuta un trattamento è innanzitutto un case report scientifico da divulgare ai colleghi di tutto il mondo, non un caso mediatico, così, si spera, chi verrà dopo di noi potrà offrire cure migliori delle nostre.

Dr. Samuel Mancuso
Specialista in Cardiochirugia Master Universitario in Patient Blood Management Esperto in Medicina e Chirurgia bloodless Maria Pia Hospital di Torino
7 ottobre 2019
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