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QS Edizioni - giovedì 25 aprile 2024

Scienza e Farmaci

Scompenso cardiaco: forse la dieta iposodica non serve. In discussione uno dei dogmi della terapia cardiologica

di Maria Rita Montebelli
immagine 10 dicembre - Il dubbio aleggia nell’aria da tanto, ma nessuno ha mai condotto degli studi di valenza scientifica tale da poter dare una risposta definitiva alla domanda: mangiare con poco sale giova alle persone con scompenso cardiaco? A dare una risposta ci ha provato una revisione sistematica pubblicata su Jama, che non giunge però a conclusioni certe. La risposta è dunque rimandata all’acquisizione dei risultati di tre grandi studi attualmente in corso: il Gourmet-HF, il Sodium-HF e il Prohibit Sodium. Nel frattempo, almeno nei pazienti ambulatoriali, gli autori consigliano di mantenere la dieta iposodica.
Le persone con scompenso cardiaco devono ridurre il sale nella dieta? La risposta, affermativa, sembrerebbe scontata, ma una revisione, appena pubblicata su Jama Internal Medicine,  dimostra che non c’è nulla di così scontato.
 
Kamal Mahtani e colleghi dell’università di Oxford, hanno effettuato una revisione sistematica di nove studi (ma ne hanno vagliati oltre 2.500 prima di fare una selezione così severa) pubblicati sull’argomento, relativi ad un totale di 479 pazienti con scompenso cardiaco, arrivando alla conclusione che mancano evidenze certe per poter consigliare a questa tipologia di pazienti di limitare l’apporto di sale. Dunque, nonostante l’inveterata abitudine di prescrivere ai soggetti con scompenso cardiaco una dieta iposodica, mancano prove scientifiche che certifichino la correttezza di questo approccio.
 
Dati recenti suggeriscono che sarebbero almeno 26 milioni le persone affette da scompenso cardiaco nel mondo e che questa patologia è associata ad una significativa mortalità, ad un grave peggioramento della qualità di vita e ad importanti costi sanitari. Oltre alla terapia farmacologia e con device, a questi pazienti viene in genere consigliato di ridurre l’apporto di sale dietetico. Un gruppo di ricercatori dell’Università di Oxford è andato a setacciare vari database bibliografici (Cochrane, Medline, Embase, CINAHL) alla ricerca di studi clinici sull’argomento ‘sale e scompenso cardiaco’. L’endpoint primario che i ricercatori inglesi avevano deciso di considerare era rappresentato da  mortalità cardiovascolare, mortalità per tutte le cause, effetti indesiderati quali ictus e infarto. Gli endpoint secondari comprendevano invece ricoveri, durata del ricovero, modifiche di classe NYHA, aderenza alla dieta iposodica, variazioni pressorie.
 
Lo studio su JAMA
Dalla revisione sistematica dei database sono stati selezionati 9 studi, su un totale di 479 pazienti. Nessuno degli studi considerati ha fornito dati soddisfacenti sull’endpoint primario. Per quanto riguarda gli endpoint secondari, due studi ambulatoriali riportavano un miglioramento della classe funzionale NYHA con la dieta iposodica, mentre altri due ne negavano qualsiasi beneficio. Questo, secondo gli autori, suggerisce però di non modificare l’attuale pratica clinica di consigliare una dieta a ridotto contenuto di sodio in questa categoria di pazienti, fino a prova contraria.
 
Gli autori concludono dunque che le evidenze di un miglioramento clinico grazie alla dieta iposodica sono molto limitate tra gli studi considerati, sia tra i pazienti ambulatoriali, che tra i ricoverati. In generale dunque non sono disponibili studi con risultati robusti e di alta qualità in grado di supportare o, al contrario, di far abbandonare la pratica clinica corrente di consigliare una dieta iposodica ai pazienti con scompenso cardiaco.
 
Manca il razionale meccanicistico
Parte dell’incertezza riguardante questa indicazione dipende dal fatto che non è chiaro il meccanicistico razionale per cui ridurre l’apporto di sale con la dieta potrebbe portare un beneficio alle persone con scompenso cardiaco; tanti sono i meccanismi proposti, dall’effetto positivo sull’omeostasi sodio-liquidi, alla riduzione dei valori pressori nei soggetti con ipertensione concomitante, alla riduzione della massa ventricolare sinistra.
 
Stanno per arrivare i risultati di tre studi importanti
Gli autori ricordano comunque che sono attualmente in corso tre importanti studi che potrebbero portare a nuove evidenze scientifiche in grado di influenzare in un senso o nell’altro l’attuale pratica clinica. Gli studi in questione sono: il Geriatric Out of Hospital Randomized Meal Trial in Heart Failure (GOURMET-HF), lo Study of Dietary Intervention Under 100 mmol in Heart Failure (SODIUM-HF) e il Dietary Sodium Intake and Outcomes in Heart Failure (PROHIBIT SODIUM). Ulteriori ricerche dovrebbero infine cercare di chiarire se la riduzione dell’apporto di sodio con la dieta sia in grado di  influenzare in qualche modo il sistema renina-angiotensina-aldosterone e quali potrebbero esserne le implicazioni cliniche.
 
Il parere del grande esperto: Clyde Yancy, già presidente AHA
Anche secondo Clyde W. Yancy (direttore della Cardiologia presso la Northwestern University Feinberg School of Medicine, Chicago (Usa) e past president dell’American Heart Association), autore di un editoriale pubblicato sullo stesso numero di Jama Internal Medicine, “c’è semplicemente troppa incertezza rispetto ad una convinzione che riteniamo ‘verità’; quanto meno sarebbe opportuno vagliarla in maniera rigorosa attraverso trial clinici randomizzati ben disegnati.” Certo, l’assunzione di sodio determina ritenzione di liquidi; certo, lo studio PURE (Prospective Urban Rural Epidemiology) ha dimostrato che nelle comunità caratterizzate da un’elevata assunzione di sodio, un ulteriore aumento di sodio con dieta, si associa con un aumento della morbilità e mortalità cardiovascolare. Ma nelle popolazioni con un’assunzione basale di sodio più contenuta, il rischio di una dieta più ‘saporita’ non è stato in realtà dimostrato.
 
“Insomma – commenta Yancy – non tutti i pazienti rispondono allo stesso modo all’assunzione o alla restrizione di sodio.” E comunque nel campo dello scompenso cardiaco mancano robuste evidenze scientifiche di un eventuale beneficio derivante dalla restrizione di sodio.
“Anche se, come medici con una grande esperienza – prosegue Yancy – tutti noi abbiamo osservato empiricamente che un’indiscriminata assunzione di sodio porta ad un’esacerbazione dello scompenso cardiaco, di fatto le prove scientifiche che questo sia vero non sono mai state prodotte. Eppure le linee guida hanno sempre abbracciato questa raccomandazione: la restrizione di sodio nello scompensato è di rigore! E’ incredibile – prosegue Yancy – come,  nella nostra epoca, così dominata dalla evidence based medicine, tutti noi abbiamo accettato acriticamente questo dogma della terapia cardiovascolare.”
 
Dogma che per il paziente rappresenta tra l’altro un gran sacrificio. Riuscire poi a stabilire con precisione l’esatta assunzione di sodio nei Paesi occidentali è veramente difficile, visto che negli alimenti confezionati il sodio ‘nascosto’ è presente un po’ ovunque. “E comunque – conclude Yancy – più che focalizzarci sulla sola restrizione di sodio, forse varrebbe la pena allargare lo scenario delle raccomandazioni a tutta la dieta”. Le ultime linee guida sull’ipertensione ad esempio raccomandano di aumentare l’apporto di potassio come mezzo per gestire meglio la pressione arteriosa e lo stesso consiglio viene dagli autori dello studio PURE. Ma anche questo consiglio, nello scompenso cardiaco, è puramente speculativo.
 
Per il momento dunque non resta altro da fare che sospendere il giudizio o improntarlo al buon senso clinico e attendere i risultati dei tre studi, che dovrebbero finalmente fornire una risposta e una solidità scientifica al dogma dell’efficacia della dieta iposodica nello scompenso. O anche no.
 
Maria Rita Montebelli
10 dicembre 2018
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