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QS Edizioni - martedì 19 marzo 2024

Scienza e Farmaci

Alzheimer: esame del sangue potrebbe rivelare la malattia 16 anni prima della comparsa dei sintomi. La ricerca su Nature Medicine

di Maria Rita Montebelli
immagine 22 gennaio - E’ uno studio che potrebbe avere implicazioni importantissime non solo in clinica, dove potrebbe consentire di diagnosticare l’Alzheimer anche 16 anni prima della comparsa dei disturbi cognitivi, ma anche nel campo della ricerca di terapie innovative per questa forma di demenza, che avrà un impatto epidemiologico sempre maggiore negli anni a venire. Il test per il dosaggio delle catene leggere del neurofilamento (NfL) è già disponibile, ma deve essere validato da ulteriori ricerche.
Un esame del sangue potrebbe rivelare la presenza di un danno cerebrale molto precoce nei soggetti destinati a sviluppare demenza di Alzheimer. Lo suggerisce uno studio condotto a quattro mani dalla Washington University School of Medicine di St. Louis (Usa) e dal  Centro tedesco di Malattie Neurodegenerative di Tübingen (Germania).
 
I risultati di questa ricerca, pubblicati su Nature Medicine, suggeriscono tra l’altro che questo esame potrebbe essere utilizzato anche in altre patologie neurologiche, quali sclerosi multipla, trauma cranico, ictus.
 
Un esame del sangue insomma che potrebbe essere incorporato all’interno di uno screening neurologico presso strutture neurologiche specializzate. “Abbiamo validato questo test – spiega uno degli autori dello studio, Brian Gordon, professore associato di radiologia presso il Mallinckrodt Institute of Radiology della Washington University – su soggetti con morbo di Alzheimer poiché sappiamo che il cervello di questi pazienti  va incontro a notevole neurodegenerazione, ma questo marcatore non è affatto specifico dell’Alzheimer. Livelli elevati di questa proteina sono presenti in diversi tipi di patologie e di danni neurologici.
 
L’esame che rivela il danno neurologico
Il test in questione misura le catene leggere del neurofilamento, una proteina strutturale presente nello ‘scheletro’ dei neuroni. Quando i neuroni vengono danneggiati,  da una patologia neurodegenerativa o da un trauma, la proteina fuoriesce dai neuroni, passa nel liquor e da qui arriva in circolo. Elevati livelli ematici di neurofilamento sono ad esempio presenti anche nei pazienti con demenza a corpi di Lewy e con malattia di Huntington; le concentrazioni di questo biomarcatore si impennano rapidamente nei soggetti con sclerosi multipla durante i periodi di flare-up, come anche negli sportivi che abbiano subito un trauma cranico.
 
Esame sul liquor o sul sangue?
E’ stato dimostrato che la presenza di elevati livelli di questa proteina nel liquor correlano con un danno neuronale, ma naturalmente non è facile effettuare l’esame sul liquor. Per questo i ricercatori americani e tedeschi sono andati a ricercare la presenza di questa proteina nel sangue, per vedere se i suoi livelli, misurati in periferia, correlassero altrettanto bene con il danno neuronale.
 
Lo studio su Nature Medicine
A tal proposito, i ricercatori hanno studiato un gruppo di famiglie (arruolate nel Dominantly Inherited Alzheimer's Network  - DIAN) portatrici di una rara variante genetica in grado di causare l’Alzheimer in giovane età (intorno ai 40-50 anni, e in alcuni casi addirittura intorno ai 30 anni).
Un genitore portatore di questa mutazione ha una possibilità su due di trasmetterla al figlio; conoscendo questo andamento, i ricercatori sono riusciti a studiare cosa succede nel cervello di questi soggetti, negli anni precedenti la comparsa dei disturbi cognitivi.
 
Nello studio pubblicato su Nature Medicine, sono stati arruolati 400 soggetti partecipanti allo studio DIAN; 247 di loro sono portatori di questa variante genetica di Alzheimer ‘early-onset’; 162 sono loro parenti non portatori di questa alterazione. Tutti erano già stati sottoposti ad esami del sangue, a TAC cranio e a test cognitivi completi, nell’ambito dello studio DIAN.
 
Nei portatori della variante genetica ‘early onset’ i livelli delle catene leggere del neurofilamento sono risultati già aumentati al basale e sono poi andati aumentando ulteriormente nel corso degli anni. Viceversa, i livelli di questa proteina sono risultati bassi e stabili nella popolazione portatrice della variante ‘sana’ del gene. La differenza tra questi due gruppi di persone era già evidente 16 anni prima della comparsa dei sintomi della malattia. Analizzando inoltre le Tac cerebrali dei partecipanti allo studio, i ricercatori hanno riscontrato una correlazione tra rapidità di innalzamento dei livelli della proteina e velocità con la quale il precuneo (una parte del cervello implicata nella memoria) si assottigliava e riduceva di dimensioni.
 
Per valutare se i livelli ematici di questa proteina possono essere utilizzati per prevedere la comparsa di declino cognitivo , gli autori dello studio hanno raccolto i dati di 39 persone portatrici della variante ‘malata’ del gene, quando sono tornati a visita di controllo a distanza di 2 anni. I pazienti sono stati sottoposti a risonanza Tac cranio e sono stati somministrati loro due test cognitivi, il Mini-Mental State Exam MMSE) e il Logical Memory test. I soggetti che avevano presentato un rapido aumento dei livelli del biomarcatore nel sangue, presentavano segni più evidenti di atrofia cerebrale e di ridotte performance cognitive alla visita di controllo.
 
Una diagnosi realmente ‘precoce’
Sedici anni prima della comparsa dei sintomi cognitivi è un momento decisamente precoce nella storia di questa patologia, ma anche in questa fase così iniziale è possibile osservare delle differenze. Ciò significa che questa proteina ha le potenzialità per essere utilizzata come biomarcatore preclinico di malattia. Il che potrebbe avere ricadute importantissime, sia in clinica, che nei trial clinici sulle terapie innovative per l’Alzheimer.
 
“Sarà importante confermare questi risultati anche nelle forme ad esordio più tardivo di Alzheimer – commenta Mathias Jucker, professore di neurologia cellulare presso il German Center for Neurodegenerative Diseases di Tübingen (Germania) – e per delimitare la finestra temporale nella quale le variazioni di concentrazione del neurofilamento devono essere valutare per un valore predittivo clinico ottimale”.
 
Il test è già disponibile, ma vanno definiti i valori di normalità
E’ già disponibile un test commerciale che consente di dosare i livelli di questa proteina nel sangue; il test tuttavia non è stato ancora approvato dall’Fda per diagnosticare, né per  prevedere il rischio individuale di danno cerebrale. Prima di validare questo test come biomarcatore predittivo di Alzheimer o di altre condizioni neurologiche sarà necessario definire con precisione il cut-off di normalità  oltre che il significato patologico della rapidità di innalzamento dei suoi valori nel sangue.
“Probabilmente solo tra qualche anno questo test potrà essere utilizzato in clinica – prevede Gordon – per individuare in fase precocissima  segni di danno cerebrale nel singolo paziente. Al momento, non siamo ancora in grado di dire se un paziente svilupperà l’Alzheimer entro i prossimi cinque anni. Ma ci stiamo lavorando”.
 
Maria Rita Montebelli
22 gennaio 2019
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