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QS Edizioni - venerdì 29 marzo 2024

Studi e Analisi

XIII Giornata malato oncologico. Allarme cure palliative, De Lorenzo (Favo): “Troppi pazienti muoiono in ospedale quando potrebbero essere assistiti molto meglio a casa”. E gli Oncologi sono preoccupati per i tagli al budget

di Ester Maragò
immagine 17 maggio - I successi della medicina sono inequivocabili. Il cancro oggi si cura con molta più efficacia. Ma di cancro si muore ancora e la Favo nel suo rapporto apre questa pagina con coraggio parlando di "emergenza cure palliative". Secondo le ultime proiezioni dell’American Society of Clinical Oncology, nella nostra parte del pianeta, nel 2040, il 70% dei pazienti oncologici avrà più di sessantacinque anni. Una vera e propria emergenza sociale che rende evidente la centralità dell’assistenza domiciliare per le cure palliative. Sul fronte delle terapie invece sono gli oncologi a lanciare l'allarme budget. IL RAPPORTO FAVO.
È un’Italia a due velocità quella dei tumori. Un’Italia che ogni anno registra circa 369mila nuovi casi e che, se da una parte dà, dall’altra toglie. Dove l’accesso ai farmaci potrebbe diventare la misura della disuguaglianza in sanità a causa degli alti costi che fanno registrare un aumento di inaccettabili disparità tra Regioni. Ma non solo, anche la disponibilità e l’accesso alle cure palliative iniziano a presentare numeri da vera e propria emergenza sociale.
 
Nelle Regioni meridionali l’avanzata dei tumori è più lenta: si registrano infatti, rispetto al Nord del paese, meno cancri dell’esofago, stomaco, pancreas, melanoma, rene, mammella, prostata e polmone femminile. Questo grazie a quei fattori protettivi, come ad esempio mangiare frutta e verdura e meno carni rosse, e ad un comportamento di vita più sano.
 
Ma la velocità cambia quando si parla di sopravvivenza: in generale in Italia è in media del 60% per tutte le sedi tumorali, ma con un forte gradiente Nord-Sud: si va dal 62,4% in Emilia Romagna al 55% in Campania. Un’andatura differente legata, in questo, caso alla capacità delle strutture sanitarie di intercettare precocemente la malattia attraverso diagnosi precoci e screening oncologici; in sostanza all’idoneità di offrire una più alta qualità delle cure.
E quindi, di garantire ai pazienti reti oncologiche regionali e Percorsi Diagnostico-Terapeutici Assistenziali che assicurino una presa in carico del paziente oncologico a 360 gradi, dalla diagnosi fino all’assistenza dopo la dimissione dall’ospedale. Peccato che le reti oncologiche regionali siano già attive solo in Piemonte, Lombardia, Toscana, Trento, Umbria e Veneto. Stesso discorso per i Pdta su specifiche sedi tumorali, deliberati e attivati in molte realtà italiane, ma non in tutte quelle del Sud Italia.
 
A fare il punto sulla situazione, sull’assistenza, sulle innovazioni e a proporre strade per uniformare le cure in tutto il Paese è il 10° Rapporto sulla condizione assistenziale dei malati oncologici, presentato da Favo (Federazione italiana delle associazioni di volontariato in oncologia) presentato oggi al Senato in occasione della XIII giornata nazionale del malato oncologico.
 
“Il Rapporto si conferma una fonte di riferimento per la conoscenza, attraverso il punto di vista dei pazienti, di alcuni aspetti fondamentali della malattia oncologica, come l’accesso ai trattamenti e la sostenibilità delle cure rispetto all’innovazione – ha spiegato Francesco De Lorenzo, presidente Favo – si consolida ulteriormente il metodo di indagine e di analisi che, ogni anno, ha consentito sin dall’inizio di raccogliere contributi multidisciplinari in grado di fornire una lettura dinamica e completa del fenomeno cancro”.

Un fenomeno che sta cambiando, così come la relazione del paziente con la sua stessa patologia. “Nel vissuto del paziente si sta evidenziando un duplice orientamento – ha sottolineato la senatrice Paola Binetti – da un lato l’esigenza di ridurre al massimo il rischio e dall’altro il bisogno di ristabilire la migliore performance possibile, includendo oltre agli aspetti strettamente clinici anche quelli socio professionali. In altri termini il paziente, non vuole correre ulteriori rischi. Ritiene che un sistema sanitario moderno e competente, capace di porre la persona al centro dell’intero sistema, dovrebbe essere in grado di garantire una qualità di cura al massimo livello possibile, in linea con gli sviluppi più moderni della scienza e della tecnica. Se così non è, allora tende a sviluppare un contenzioso rilevante, soprattutto sotto il profilo economico, come espressione di rivalsa per il danno subito. Proprio per questo i programmi per il miglioramento della qualità dei servizi sanitari e sociosanitari oggi rappresentano un investimento necessario per il miglioramento dell’appropriatezza dell’assistenza ai pazienti, necessaria anche a garantire la sostenibilità del sistema”.
 

 

Il rapporto consegna un Paese con molte disparità. Soprattutto tra il Nord e il Sud. Sulla diagnosi precoce, tassello fondamentale per la lotta al cancro e che vede nelle azioni di screening la sua arma principale l’Emilia-Romagna e in generale le Regioni del Nord mostrano i più alti tassi di adesione agli screening, mentre le regioni del Sud, al contrario, presentano adesioni più basse: per la mammella fanalino di coda è la Campania (appena il 22% contro il 76% dell’Emilia Romagna), per il colon-retto la Calabria con il 5% (in ER l’adesione allo screening è del 65%) e per la cervice uterina la Sardegna con il 22% (Il 66% in ER). E così la sopravvivenza per cancro alla mammella in Emilia Romagna è del 88,9% mentre in Campania è dell’83,8%, per la cervice uterina è del 75,5% in Umbria e del 58,4% in Sardegna.
 
Cure palliative: è emergenza
Una delle più gravi emergenze rilevate nel nuovo Rapporto è la disponibilità e l’accesso alle cure palliative. “A fronte dell’evidente beneficio che porterebbe la diffusione di questa tipologia di assistenza, soprattutto se erogata al domicilio del paziente – ha detto Francesco De Lorenzo   – si registra ancora un tasso di decessi in ospedale troppo elevato. I dati rappresentano chiaramente due profili tra loro inevitabilmente connessi: il 20% dell’intera spesa sanitaria è assorbito pazienti proprio nell’ultimo anno di vita; le cure erogate nelle strutture ospedaliere in favore di malati cronici in fase avanzata e con limitata aspettativa di vita presentano costi troppo elevati e quindi insostenibili in relazione ai benefici, molto limitati. Ogni anno, in Italia – ha aggiunto – 183 mila nuovi casi di tumore sono diagnosticati a persone che hanno oltre settant’anni. Il 60% dei 3 milioni di malati o lungoviventi oncologici sono ultrasessantenni. Secondo le ultime proiezioni dell’American Society of Clinical Oncology (2017), nella nostra parte del pianeta, nel 2040, il 70% dei pazienti oncologici avrà più di sessantacinque anni. Una vera e propria emergenza sociale che rende evidente la centralità dell’assistenza domiciliare per le cure palliative”.
 
Ma qual è lo stato dell’arte rispetto alle cure palliative per i malati in fin di vita? A inizio 2018 l’Istat ha reso noti i dati aggiornati dell’Archivio “Cause di morte”, secondo i quali il 39,6% dei decessi del 2015 è avvenuto in casa, il 42,6% in ospedale, il 5,7% in un hospice, il 9,2% in una Rsa ed il restante 2,8% per strada, nel luogo di lavoro o in carcere.
 
Il Rapporto al Parlamento del ministero della Salute sullo stato di attuazione della Legge 38 del 2015 registra un numero totale di pazienti in fase avanzata di malattia in assistenza domiciliare pari a 52.109, di cui 44.842 per una terminalità causata da una malattia oncologica. Inoltre, il numero dei pazienti deceduti nei reparti per acuti con diagnosi di cancro è pari a 44.725 (25% della mortalità per tumore), con una modalità di cura ad alto costo, ma con benefici limitati e con la privazione del diritto a morire nel proprio domicilio con ben altra qualità di vita.
 
È stato dimostrato da uno studio veneto di 3 anni fa che se a questi pazienti fosse assicurata un’adeguata assistenza domiciliare e palliativa, la degenza in ospedale si ridurrebbe da 20 a 4 giorni, con un risparmio di circa 2mila euro a paziente.
 
L’insuccesso e l'emergenza rappresentati dai dati sono da ricercare in un'offerta eccessivamente frammentata, che varia non soltanto da regione a regione, ma addirittura da provincia a provincia.  Dal monitoraggio dei Lea - nei quali rientrano le cure palliative da erogare secondo criteri di qualità, appropriatezza ed efficienza - emerge che ci sono piene adempienze in undici regioni (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Liguria, Lombardia, Piemonte, Puglia, Toscana, Umbria e Veneto) e adempienze con impegno in quattro regioni (Emilia Romagna, Lazio, Marche e Sicilia).
 
Soprattutto, evidenzia il Rapporto, nonostante le politiche pubbliche di investimento in questo campo, negli ultimi 10 anni è rimasta invariata la percentuale di malati oncologici che in Italia può rimanere a casa propria fino alla fine. Questo significa che nonostante il domicilio costituisca il luogo di decesso privilegiato per la maggior parte dei sofferenti di tumore, molti di essi muoiono ancora in ospedale. Dalla relazione sulle cure palliative presentata al Senato nel 2017 emerge che tra il 2009 ed il 2013 sono diminuiti del 9,1% i cittadini ospitati nelle strutture residenziali e quelli che godono di indennità di accompagnamento, è scesa la spesa per i servizi sociali di regioni e comuni del 7,9%, e il numero di posti letto in strutture residenziali si è ridotto sensibilmente.
 
Il fattore determinante di questo insuccesso è da ricercare nella grande disomogeneità dei modelli assistenziali adottati in Italia non soltanto dalle diverse regioni ma addirittura da provincia a provincia.
 
“In sintesi – si legge nel Rapporto – nonostante se ne parli da tempo, ancora oggi dobbiamo fare i conti con l’insuccesso delle cure palliative domiciliari, e di conseguenza con la non applicazione dei criteri previsti dai Lea, a causa della mancanza di una volontà chiara ed univoca, da parte del sistema sanitario nazionale, di impostare politiche sostenibili nello spazio e nel tempo basate su modelli assistenziali di valore”.
 
Anche se va detto che non mancano best practice.Nel territorio bolognese, la percentuale di decessi al domicilio tra le persone assistite a domicilio è pari al 75%14, contro dato generale del 41,6% dei malati di cancro in Italia (dati Istat 2014). Una ulteriore conferma proviene dal dossier sul fine vita dei pazienti oncologici pubblicato nel 2016 dalla Regione Emilia-Romagna, che mostra come a Bologna, grazie ad un modello virtuoso di integrazione tra pubblico e privato sociale consolidatosi negli anni15 i decessi in ospedale ed i ricoveri siano significativamente inferiori rispetto alle altre province della regione.
 
Ma sono ancora tante le emergenze da affrontare per garantire le cure e l’assistenza migliore ai malati oncologici. In primis quello dell’allocazione delle risorse.
Le variabili di cui dover tenere conto nell’affrontare la questione sono molteplici: il bisogno, la dignità della persona, la appropriatezza, la sostenibilità economica, l’equità di accesso, la qualità della vita del paziente, gli eventuali effetti collaterali, la solidità delle prove scientifiche, e molte altre.
Favo ha quindi deciso quest’anno di realizzare due primi test di ricerca sul campo sul tema delle scelte etiche dei medici in oncologia, quale primo approccio in vista di un approfondimento che verrà portato a compimento in futuro in maniera più ampia.
 
La prima indagine, realizzata attraverso un questionario strutturato presso un campione di medici oncologi (distribuito con la collaborazione attiva di Aiom, l’Associazione Italiana di Oncologia Medica), ha permesso di rilevare che il 71% dei medici coinvolti si è sentito in difficoltà almeno qualche volta (spesso nel 60% dei casi) rispetto alle scelte da compiere in termini di trattamento terapeutico a causa del budget finanziario a disposizione.
 
Quasi il 50% di coloro che hanno risposto in tal senso riconosce che si è trattato di difficoltà che coinvolgono l’etica professionale e quasi il 20% dei rispondenti afferma che le carenze di budget hanno inciso sulla somministrazione dei trattamenti terapeutici, ad esempio in termini di tempi di attesa, ed in qualche caso portando a rimandare il trattamento all’anno successivo. Da notare come il paziente sia stato quasi sempre messo al corrente di tali difficoltà, ma che in nessun caso si è fatto ricorso alla mediazione di una associazione di pazienti. I criteri principali utilizzati di fronte alla necessità di selezionare i pazienti in termini di priorità sono la comorbidità e l’età.
 
La seconda indagine, condotta tramite un questionario simile al precedente e realizzata presso un campione di chirurghi oncologi con il supporto della Sico (Società Italiana di Chirurgia Oncologica), ha permesso di rilevare che in questo caso più della metà dei rispondenti (60,3%) si è trovato in difficoltà rispetto alle scelte da compiere in termini di impiego di tecnologie efficaci, in relazione al budget a disposizione.
 
Tali difficoltà hanno riguardato in primo luogo l’attesa per l’intervento e le liste d’attesa (53,2%), in secondo luogo l’efficacia dell’atto terapeutico (42,6%) e la sua efficienza/tempestività (36,2%). In misura sensibilmente inferiore le difficoltà hanno riguardato direttamente l’etica professionale (8,5%). Le restrizioni di tipo finanziario ed economico sono giudicate dalla maggior parte dei chirurghi oncologi evitabili con una adeguata gestione (75,6%), e spesso ingiustificate (25,7%).
 
Inequivocabile è l’opinione negativa espressa dalla grande maggioranza degli intervistati (90,4%) in merito alla valutazione operata dalle aziende sanitarie sulla base di indicatori di performance che considerano impropri i ricoveri relativi alla gestione post chirurgica delle complicanze legate ad un intervento oncologico. Per il 78,1% dei rispondenti, un ruolo più significativo dovrebbe essere assegnato ai pazienti, sia attraverso il ricorso alle associazioni di tutela che attraverso il ricorso alle strutture Urp, giudicate entrambe necessarie dal 78% degli intervistati.

Ester Maragò
17 maggio 2018
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