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QS Edizioni - giovedì 28 marzo 2024

Studi e Analisi

Reati stradali e prelievi coattivi. Quali margini di discrezionalità operativa per i sanitari?

di Carlo Bonzano
immagine 18 maggio - Va stigmatizzata qualsivoglia forma di ritrosia da parte degli addetti al servizio sanitario rispetto allʼeffettivo adempimento del dovere di immediata collaborazione con la polizia giudiziaria, essendo espressamente previsto il rilascio della certificazione relativa agli accertamenti svolti, "estesa alla prognosi delle lesioni accertate, assicurando il rispetto della riservatezza dei dati in base alle vigenti disposizioni di legge" (artt. 186, comma 5 e 187, comma 5 d.lgs. n. 285 del 1992). 
Come noto, la legge n. 41 del 2016 assume un significativo interesse per gli esercenti le professioni sanitarie, in quanto alla introduzione nel codice penale delle nuove fattispecie delittuose di omicidio stradale (art. 589-bis c.p.) e lesioni stradali (art. 590-bis c.p.) si è accompagnato l’adeguamento delle regole del procedimento penale in tema di accertamenti medici coattivi.
 
In tal senso, lʼaspetto di maggiore rilievo riguarda sicuramente le modifiche apportate all’art. 359-bis c.p.p., consistenti nella previsione di una nuova ipotesi di accertamento urgente: nei casi di omicidio stradale (art. 589-bis c.p.) e lesioni stradali (art. 590-bis c.p.p.), qualora il conducente rifiuti di sottoporsi agli accertamenti dello stato di ebbrezza alcolica ovvero di alterazione correlata all’uso di sostanze stupefacenti o psicotrope, se vi è fondato motivo di ritenere che dal ritardo possa derivare grave o irreparabile pregiudizio alle indagini, i provvedimenti con cui il pubblico ministero dispone le operazioni, l’accompagnamento coattivo e l’eventuale esecuzione coattiva in mancanza di consenso, nei casi di urgenza, possono essere adottati anche oralmente e successivamente confermati per iscritto; l’iniziativa si sostanzia in un decreto, in forza del quale gli ufficiali di polizia giudiziaria procedono allʼaccompagnamento dell’interessato presso il più vicino presidio ospedaliero al fine di sottoporlo al necessario prelievo o accertamento e si procede all’esecuzione coattiva delle operazioni, ove l’interessato neghi il proprio consenso.
 

Tanto premesso, appare sorprendente che il prelievo ematico non sia stato espressamente disciplinato dal legislatore, sicché la legittima praticabilità dello stesso finisce oggi per essere ricavata in via meramente interpretativa (come confermato dalla quasi totalità delle circolari emanate dai vari Uffici della Procura della Repubblica distribuiti sul territorio nazionale). In effetti, non può essere ignorata la centralità del prelievo ematico, rispetto al quale ogni altro atto funzionalmente omologo resta collocato a latere, sia pure per ragioni diverse: dal punto di vista scientifico è ormai acclarato come lʼetilometro (strumento di largo impiego nell’ambito degli accertamenti urgenti svolti sul posto dalla polizia giudiziaria) risulti affetto da un elevato tasso di errore e di approssimazione; d’altronde, è in fase ancora embrionale la valorizzazione del prelievo salivare ai fini “diagnostici” che qui interessano.

In buona sostanza, si è al cospetto di una regolamentazione, che – in quanto carente – rimette alla prassi la disciplina delle interrelazioni tra gli organi investigativi e quelli sanitari. Invero, è proprio il contegno che può (legittimamente) assumere il personale ospedaliero a poter incidere anche e soprattutto in ordine all’effettivo seguito delle iniziative praticabili dallʼautorità inquirente.

In questo senso, occorre innanzitutto intendersi sulla esatta individuazione dei soggetti potenzialmente tenuti ad eseguire coattivamente l’accertamento, dovendosi chiarire se il compimento dell’atto possa essere richiesto solo al personale medico inteso stricto sensu, ovvero a chiunque rientri nella più ampia categoria degli esercenti le professioni sanitarie. 
 
Al riguardo, non può negarsi come, di regola, gli accertamenti di routine e il prelievo ematico in particolare esulino dalle attività proprie del medico, essendo tradizionalmente rimesse alla maggiore dimestichezza degli infermieri. Prima facie, l’esigenza di evitare difficoltà operative sembrerebbe dover far propendere per l’interpretazione estensiva da ultimo prospettata. Ad un esame più attento, tuttavia, la qualificazione in termini «medici» degli accertamenti sembra funzionale al rispetto dellʼinsopprimibile istanza della salute (art. 32 Cost.), sicché – a prescindere da chi materialmente compia l’operazione – appare comunque irrinunciabile un preventivo intervento del medico appunto, onde escludere, rispetto al caso concreto ed al singolo “paziente”, che l’esecuzione dell’accertamento presenti eventuali rischi che renderebbero impraticabile il prelievo.

A ben vedere, il tema si pone in linea di immediata consequenzialità con quello della obbligatorietà o meno dell’atto che gli inquirenti richiedano di compiere e, conseguentemente, con la non semplice individuazione dello status, inteso in senso processuale, che il sanitario possa assumere. È da quest’ultimo profilo che dipende la configurabilità di un obbligo giuridico di adempiere in capo al medico, essendosi registrate, soprattutto in ambito sanitario, posizioni volte a riconoscere sempre e comunque una sorta di libertà di coscienza alla quale legittimamente improntare la scelta di dare seguito o meno alle richieste dellʼautorità procedente. Orbene, poiché un arbitrario diniego potrebbe vanificare l’intera procedura improntata sull’urgenza della situazione e sulla necessità di effettuare gli accertamenti nellʼimmediatezza dell’incidente, l’orientamento prevalente ritiene di dover attribuire al personale sanitario la qualifica di ausiliario di polizia giudiziaria (art. 348 c.p.p.).

Per quanto possa apparire un’ovvia conseguenza della soluzione appena prospettata, risulta invece dedotta con deprecabile disinvoltura l’asserita impossibilità di rifiutare la prestazione. A ben vedere, pur volendosi riconoscere alla richiesta avanzata dallʼautorità inquirente una portata sostanzialmente impositiva, non è affatto vero che ne deriverebbe l’azzeramento di qualsivoglia margine valutativo in capo al medico (invece tenuto, come si è accennato, a verificare compiutamente che le peculiarità del caso concreto rispettino almeno lʼintangibile sfera della salute del paziente). Ne deriva la conseguenza di dover riconoscere come legittimo l’inattivismo serbato dal sanitario a fronte di un pericolo per la salute psicofisica del soggetto, come pure in presenza di altri legittimi impedimenti (beninteso, espressamente indicati e compiutamente motivati).

Il medesimo approccio sembra utilmente fruibile anche per porre rimedio alla questione limitrofa, indotta dal rilievo secondo cui gli accertamenti coattivi – essendo finalizzati esclusivamente al soddisfacimento di istanze giudiziarie – risulterebbero subvalenti rispetto al compimento di qualsivoglia trattamento di natura autenticamente terapeutica cui fosse contestualmente chiamato il personale sanitario: la cura del malato che si rivolga al presidio ospedaliero manterrebbe, per sua stessa natura, priorità esecutiva sulla diagnosi processuale da compiersi, su richiesta dellʼautorità procedente, nei confronti di chi si ipotizza si sia reso autore di uno dei reati previsti dagli artt. 589-bis e 590-bis c.p.
 
In tal senso, occorre rilevare come la normativa di riferimento (art. 224-bis, comma 4 c.p.p.), nel costituire un argine insuperabile a tutela della salute della persona che debba essere assoggettata allʼaccertamento, non possa non imporre garanzie ancor più solide in favore del malato, il quale (del tutto estraneo alle operazioni coattive) si rechi al pronto soccorso per esigenze autenticamente mediche.
 
In particolare, l’art. 224-bis, comma 4 c.p.p. vieta espressamente che le istanze giudiziarie vengano soddisfatte mediante strumenti che «possono mettere in pericolo la vita, l’integrità fisica o la salute […], ovvero che, secondo la scienza medica, possono provocare sofferenze di non lieve entità» in capo a chi debba esservi sottoposto; ovvio che alla sfera della salute di un soggetto del tutto estraneo all’accertamento (qual è qualsivoglia paziente che si rechi al pronto soccorso per esigenze terapeutiche) debba riconoscersi, a fortiori, una tutela ancor più ampia, da farsi necessariamente coincidere con il ripudio di patimenti anche minimi, ad esempio indotti da un ritardo terapeutico determinato dallʼessere i sanitari occupati ad evadere le concomitanti istanze avanzate dagli inquirenti.
 
D’altronde, qualsiasi impostazione alternativa finirebbe per tradursi nell’irragionevole pretesa di trasferire in capo al personale sanitario i rischi insiti in un eventuale riordino delle priorità da seguire: si pensi al paziente che, giunto al pronto soccorso in uno stato prima facie non preoccupante, abbia visto aggravarsi le proprie condizioni (magari con esito esiziale), la cui evoluzione non abbia potuto essere adeguatamente monitorata dai sanitari perché impegnati nel dar seguito ad una richiesta di accertamento coattivo.
 
Per quanto sia innegabile che il ragionamento, una volta calibrato sul costante sovraffollamento dei presidi ospedalieri, possa risolversi in una impossibilità di fatto di fare applicazione concreta degli strumenti investigativi in esame, l’unico temperamento legittimamente praticabile sembra potersi individuare nel ricomprendere il carico terapeutico da evadere tra i motivi che il medico può immediatamente addurre per sottrarsi alla iniziale richiesta degli inquirenti.
 
Al contempo e per converso, sembrano porsi fuori dal sistema i rifiuti ed i ritardi, purtroppo riscontrati nella prassi, nel fornire allʼautorità richiedente i dati del sanitario di turno cui indirizzare il modulo di richiesta per lʼesecuzione degli accertamenti “stradali”, con evidenti conseguenze in ordine all’efficacia euristica dellʼatto.
 
In termini più ampi, va fermamente stigmatizzata qualsivoglia forma di ritrosia da parte degli addetti al servizio sanitario rispetto allʼeffettivo adempimento del dovere di immediata collaborazione con la polizia giudiziaria, essendo espressamente previsto, tra lʼaltro, il rilascio della certificazione relativa agli accertamenti svolti, «estesa alla prognosi delle lesioni accertate, assicurando il rispetto della riservatezza dei dati in base alle vigenti disposizioni di legge» (artt. 186, comma 5 e 187, comma 5 d.lgs. n. 285 del 1992). 
 
Carlo Bonzano
(Professore di diritto processuale penale nellʼUniversità di Roma “Tor Vergata” e esperto in discipline penalistiche di Federsanità ANCI)
18 maggio 2018
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