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QS Edizioni - venerdì 29 marzo 2024

Studi e Analisi

Le regole d’ingaggio e un Patto per la Salute tutto in salita

di Ivan Cavicchi
immagine 14 febbraio - In tutta franchezza non credo che la demagogia e l’irragionevolezza giovi alla sottoscrizione del patto. Ammesso che ci si accordi sulle pre condizioni dettate dal documento delle Regioni, statene certi, vedremo due orbi fare a sassate con il segreto proposito di farsi l’un con l’altro le scarpe. E di soldi ne vedremo pochi
Sono rimasto molto colpito della scelta del nostro titolista di definire come “regole di ingaggio” il documento delle Regioni contenente le condizioni di fattibilità per il prossimo Patto per la Salute.
 
Le regole di ingaggio, come ci insegnano i film di guerra, sono quelle che stabiliscono a quali condizioni si può sostenere uno scontro con le forze nemiche, o sparare a qualcuno di sospetto, o intervenire in una situazione difficile. Cioè definiscono le forme di relazioni con il nemico. Ora non so se le Regioni la vedono così (quel termine è appunto una interpretazione giornalistica) ma in ogni caso penso che dia il senso della partita in corso.

Le regole di ingaggio (continuerò a chiamarle anch'io così) definite dalle regioni per fare il patto per la salute con il governo, stabiliscono sostanzialmente due cose:
- le condizioni fondamentali senza le quali il patto non può essere fatto
- come farlo cioè quali garanzie servono nel caso esso dovesse essere fatto.

Impressioni
La prima impressione, che viene dopo averle lette, è che per le Regioni il Governo sia un “nemico” più che un interlocutore, o se preferite sia una “controparte avversaria”, con la quale, supponendo che gli interessi siano tanto contrastanti che divergenti, si tratta di entrare in competizione e probabilmente in collisione.

Credo che tutto questo alla fine risenta molto del clima che si è creato con il regionalismo differenziato che, gratta gratta, alla fine contrappone i poteri dello stato a quelli delle regioni.

Per cui il richiamo del documento regionale alla “leale collaborazione tra i diversi livelli istituzionali coinvolti nella governance del Servizio Sanitario Nazionale”, mi risulta alquanto retorico se non rituale. Trovo esagerato che due istituzioni pubbliche tra loro complementari per collaborare debbano definire tutta una serie di presupposti per poter sedersi al tavolo e chiudere un Patto. Se si definiscono regole simili è perché le due istituzioni non si fidano l’una dell’altra e perché i loro rapporti non sono di collaborazione ma di altro tipo.

La seconda impressione è che i presupposti avanzati dalle regioni siano così esigenti e per certi versi così pretenziosi, da rendere quasi impossibile la stipula di un patto o di un accordo. Ciò che le regioni chiedono prima di tutto non si limita agli aspetti finanziari ma si estende a questioni istituzionali come il regionalismo differenziato, i problemi del commissariamento, i piani di rientro, la formazione, la governance, gli indicatori di risultato, i ruoli professionali ecc. Siamo ben oltre l’ambito delle tradizionali competenze del patto, quello che si chiede è molto di più, quasi a voler ridefinire un quadro di sistema che per ovvie ragioni non può ridursi solo ad un accordo tra governo e regioni, chiamando in causa inevitabilmente altri soggetti come i sindacati, gli ordini, le società scientifiche.

La terza impressione molto ben illustrata dall’articolo di Luciano Fassari riguarda in particolare il difficile rapporto tra le regioni e quindi i suoi governatori e il ministro Grillo, cioè la tensione che si è creata tra di loro, a causa, dicono le regioni di certi comportamenti del ministro, delle sue poco ponderate dichiarazioni, delle sue continue manifestazioni di propaganda, e che si condensa nella parola da loro usata  di “dirigismo” quasi a lamentarsi non solo della scorrettezza di  certi comportamenti  ma anche alla fine di una indebita ingerenza del ministro negli affari delle regioni (vedi ospedali e punti nascita).

Che tra le regioni senza alcuna distinzione di colore politico e il ministro Grillo non corra buon sangue, lo sanno tutti. Le regioni, off of the record, parlano di un ministro debole, inesperto, senza uno staff adeguato, e quindi poco affidabile, ma secondo me esse, intemperanze del ministro a parte, vivono con grande incertezza le scelte finanziarie della legge di bilancio sulla sanità soprattutto immagino alla luce dei dati sconfortanti sulla crescita, sulla recessione e dei quali è difficile dare la colpa alla Grillo.

La quarta impressione viene fuori se si mette a confronto il patto per la salute del 2014/2016 quello sottoscritto dalla Lorenzin con le regole di ingaggio appena definite e rivolte al ministro Grillo. Non c’è alcun dubbio che vi è una macroscopica differenza politica di trattamento cioè che l’approccio delle regioni nei confronti dei due governi è molto ma molto diverso.

Nel primo caso la subalternità delle regioni al governo Gentiloni è persino imbarazzante, nel secondo caso attraverso le regole di ingaggio si percepisce perfino una ostilità, una avversione, una vera e propria contrapposizione politica.

Nel precedente patto per la salute i titoli, quindi le questioni, erano di natura molto tecnica (fabbisogno, assistenza ospedaliera, umanizzazione delle cure, presidi territoriali, specialistica ecc) ma in queste regole di ingaggio, a parte la questione delle risorse e della sostenibilità per efficienza, molte delle questioni sono politiche, istituzionali, giuridiche.

Sembra che più che un patto finanziario si voglia fare qualcosa di parallelo al regionalismo differenziato o comunque qualcosa che non sia in contraddizione con esso. Resta l’impressione che le regioni in questa circostanza stiano alzando il tiro e il livello delle loro richieste. Non mi sembrano miti e sottomesse come ai tempi di Renzi e di Gentiloni.
 
Il nodo resta il finanziamento
A osservare in trasparenza, cioè contro luce, le richieste finanziarie delle regioni, si comprende la loro vera ansia, la loro vera preoccupazione, che è quella ancor prima della giusta quantità di risorse, quella soprattutto della certezza della loro disponibilità. In tutta sincerità non riesco a dare loro torto, nessun serio governo è possibile in un quadro di incertezza finanziaria nel senso che nell’incertezza salta qualsiasi programmazione. Tuttavia mi preoccupano alcune posizioni che ho letto nelle regole di ingaggio che non esito a definire irrealistiche e quindi non praticabili.

Come le seguenti:
“risorse certe e non condizionabili dall’andamento dell’economia”
- “incremento significativo delle risorse a disposizione per il triennio 2019-2021, oltre a quanto già stanziato in legge di Bilancio;
- “non si può prevedere che gli incrementi – già insufficienti – del livello di finanziamento del SSN siano accessibili alle Regioni solo a condizione di sottoscrivere il nuovo Patto”.

Le regioni stanno teorizzando, ripeto in modo irrealistico ciò che, a partire dalle aziende, quindi dal 1992, ma soprattutto a partire dalle tante leggi di bilancio fatte in questi 40 anni, ha cambiato addirittura lo spirito di fondo dell’art 32 e cioè che il diritto alla salute sia economicamente condizionabile. Nel momento in cui si dichiara il contrario (il diritto è una variabile indipendente dall’economia), diventa logico per le regioni dire che la spesa per la salute deve essere a sua volta una variabile indipendente dall’economia e quindi svincolarla dal suo andamento e chiedere il rifinanziamento tout court del sistema.

Vorrei far notare due cose:
che l’intesa finanziaria o patto per la salute nasce nel momento in cui i criteri automatici di finanziamento della sanità previsti dalla riforma del 1978 proprio perché solo di natura incrementale, entrano in crisi cioè diventano finanziariamente ingestibili e economicamente incompatibili, cioè vorrei ricordare alle regioni che il patto oggi è la forma non automatica di finanziamento della sanità che ha preso il posto di quei criteri;

- che le regioni mentre pretendono dal governo risorse certe e non condizionate nello stesso tempo sono le stesse che con il regionalismo differenziato, propongono di finanziare la sanità non più secondo diritto e quindi secondo necessità, ma secondo il gettito fiscale, cioè secondo l’economia prodotta territorialmente accettando di assumere il paese come un sistema a economie differenziate quindi accettando di dividere il paese in base al pil e non di riunificarlo in base ai diritti.

In tutta franchezza non credo che la demagogia e l’irragionevolezza giovi alla sottoscrizione del patto.
 
Se il patto non serve a finanziare il sistema cosa lo facciamo a fare
L’idea del finanziamento come variabile indipendente rispunta nella regola di ingaggio secondo la quale il governo deve rinunciare a subordinare il finanziamento della sanità alla sottoscrizione del patto come è stato deciso con l’ultima legge di bilancio.

Il significato politico di questa regola di ingaggio è molto chiaro e per me, mi dispiace rimarcarlo, altrettanto irrealistico e altrettanto demagogico.
Se rammentiamo che il patto per la salute soprattutto negli anni è stato di fatto uno scambio tra finanziamenti e risparmi, cioè tra le assegnazioni finanziarie del governo in cambio di razionalizzazioni, di maggiore efficienza, di rispetto dei limiti, da parte delle regioni, si comprende che le regioni non solo vogliono  sganciarsi dall’andamento dell’economia, non solo vogliono incrementi finanziari significativi, ma vogliono tutto questo sotto-forma di cash, cioè sotto-forma di semplice incremento di spesa, ma con questa regola di ingaggio esse si sottraggono all’obbligo di dare contro partite di risparmio, riducendo ad esempio le tante diseconomie che esistono nei loro sistemi sanitari.

Non c’è bisogno di attenersi alla metodologia marxiana per comprendere che di questi tempi, in recessione, con le scelte di politica finanziaria fatte dal governo su pensioni e reddito di cittadinanza, quindi con i problemi che abbiamo nel rapporto tra spesa pubblica e disavanzo pubblico, pensare di poter incrementare la spesa sanitaria è una speranza improbabile.

Al massimo si può ragionare con il “vuoto per pieno” cioè togliere da una parte per metterla da qualche altra parte.  Anzi per dirla tutta io penso, e credo che le regioni a loro volta hanno mangiato la foglia altrimenti non mi spiegherei le loro regole di ingaggio, e cioè che in questa fase sia piuttosto difficile rispettare le indicazioni finanziarie sulla sanità, mi riferisco agli incrementi di 2 mld, a meno di non compensarli con dei risparmi.

Il patto per la salute è stato evocato dalla legge di bilancio solo come uno strumento capace di compensare di fatto l’incremento di spesa previsto. Per cui penso poco probabile che le regioni avranno i soldi previsti nella legge di bilancio senza dare altri soldi in cambio.

E’ del tutto evidente che per le regioni quello che ho sempre definito alla canadese come “spending power”, cioè il condizionamento finanziario da parte del governo delle autonomie regionali, entra in contraddizione con il regionalismo differenziato. Che senso ha per le regioni avere più autonomia se il governo continua a tenerle sulla graticola con i finanziamenti?

Quindi è del tutto evidente che l’idea del Veneto, della Lombardia e dell’Emilia Romagna di autofinanziarsi la sanità usando il proprio gettito fiscale, ha lo scopo di liberarsi una volta per tutte dallo spending power del governo e dei patti per la salute. Se una regione diventa finanziariamente autonoma e organizzativamente autarchica, mi si deve spiegare che interesse ha a sottoscrivere dei patti con il governo.
 
Orbi e sassate
Avrete capito che questo patto per la salute da fare entro il 31 marzo, lo vedo molto in salita.

Personalmente penso che una condizione fondamentale per fare il patto sia quella di circoscrivere l’ambito delle questioni, se nel patto le regioni ci vogliamo mettere di tutto e di più, le possibilità di sottoscriverlo si riducono e di molto. Nello stesso tempo credo che andrebbero accantonate le demagogie e le cose impossibili, non esistono le condizioni per sganciare la spesa sanitaria dalle politiche economiche, e meno che mai di permetterci di poter incrementare la spesa così semplicemente.

Infine penso quello che ho sempre pensato e che sta dietro alla mia idea di “quarta riforma” e cioè che possiamo finanziare come si deve la sanità solo se con delle riforme serie abbassiamo il suo costo complessivo. Per abbassare questo costo complessivo dobbiamo sostituire una idea vecchia di tutela e di fabbisogno, con una idea nuova. Dobbiamo riformare culturalmente la nostra sanità pubblica. In pratica il patto per la salute dovrebbe essere un patto per le riforme. Cioè un patto strategico.

Con il regionalismo differenziato siamo in pieno contro-riformismo, non è quindi un caso se sia il governo che le regioni non hanno una strategia per abbassare il costo complessivo del sistema, tutti prigionieri del piccolo cabotaggio, meno che mai hanno un pensiero riformatore in grado di riattualizzare un intero sistema di servizi, di professioni, di conoscenze. Con costoro parlare di riforme culturali è velleitario.

Per cui in questo patto per la salute ammesso che ci si accordi sulle regole di ingaggio statene certi vedremo due orbi fare a sassate con il segreto proposito di farsi l’un con l’altro le scarpe. E di soldi ne vedremo pochi.
 
Ivan Cavicchi
14 febbraio 2019
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