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QS Edizioni - giovedì 28 marzo 2024

Studi e Analisi

Il dibattito sull’Ebm. Il “qui e ora” nel rapporto col paziente

di Sara Diani
immagine 14 ottobre - Proseguiamo il dibattito sollevato dall'ultimo libro di Ivan Cavicchi sulle evidenze scientifiche in medicina con Sara Diani. “Sento la necessità di unire un approccio filosofico, epistemologico, alla parte più scientifica. Sento la necessità di coniugare lo studio del corpo a quello della mente e della coscienza, considerandoli in modo sistemico. Sento la necessità di uno sguardo più ampio, capace di abbracciare le logiche della Vita e di usarle a scopo terapeutico”
La domanda di Ivan Cavicchi “Esiste la verità in medicina?”, affrontata nel suo ultimo libro “L'evidenza scientifica in medicina. L'uso pragmatico della verità”, è cruciale. Per proseguire in questo interessantissimo dibattito, ne aggiungo un’altra: se anche esistesse la verità, noi come medici saremmo in grado di coglierla, agendo di conseguenza?
 
Rispondo a questa domanda retorica con una riduzione ad assurdo: è evidente che se fossimo in grado di cogliere una presunta verità univoca, assoluta e sempre valida, la medicina e il nostro ruolo assumerebbero caratteristiche trascendenti, metafisiche, ontologiche. Solo che questo ci trascinerebbe anche verso un dogmatismo, un’immutabilità delle leggi che usiamo e che riteniamo appunto assolutamente valide. Ovvero, questo porterebbe a una versione dello scientismo a cui purtroppo da anni pare che siamo mediatamente sottoposti. Siamo invece osservatori di ciò che ci si presenta.
 
Costruiamo la nostra realtà attraverso le nostri lenti, che sono composte dai nostri modelli teorici, più o meno espliciti, e dal nostro background personale e culturale. “Tutto ciò che è detto, è detto da un osservatore”, scriveva Maturana. E questa è l’essenza del costruttivismo, filosofia epistemologica che ci obbliga a considerare i nostri limiti, i nostri vincoli come osservatori, il nostro essere “nel mondo” e non “sopra il mondo”.
 
I modelli teorici che vengono insegnati a medicina sono perlopiù riduzionisti (mirano ad indagare e insegnare i “pezzetti” di “verità” analizzando le singole patologie, i singoli e spesso locali flussi molecolari), oggettificanti (il paziente viene spesso visto come l’accidentale portatore di un corpo malato, ne vengono escluse la soggettività, la coscienza, la cultura, il contesto in cui vive), cartesiani e meccanicisti (il corpo viene visto come una macchina che a un certo punto si rompe, e il medico prova ad aggiustarla. La res cogitans è invece misteriosa, non ben comprensibile, ma appunto, è un fattore accidentale e non degno di considerazione. Per questo esistono gli psichiatri.)
 
Questi modelli, che sono sia epistemologici che vagamente ontologici, rimangono impliciti. Questo significa che il giovane medico non avrà la consapevolezza di questa componente fondamentale delle sue lenti con cui osserva il mondo suo e del paziente che si ritrova davanti. Tantomeno penserà che la sua vita, il suo vissuto, i suoi valori, la sua idea di coscienza e di mente (se ne ha una) influenzeranno la sua pratica clinica. È in questo vuoto epistemologico che si inserisce l’Evidence Based Medicine.
 
Su questo modo di accumulare conoscenza in medicina e poi di utilizzarla a livello clinico ragiono da quando mi sono laureata. Infatti, ho frequentato l’università negli anni in cui l’EBM stava arrivando in Italia, almeno a livello universitario, e questo ci veniva presentato come il nuovo modo di agire. Contemporaneamente, in modo molto fiero il nostro professore di clinica medica, per dimostrarci il grande progresso medico-scientifico, ci ha detto che “tutte le evidenze mediche cambiano ogni 6 anni”.
 
Da lì, il mio primo pensiero interrogativo, che tuttora sussiste in me, ovvero “se le evidenze cambiano ogni 6 anni, forse non sono così evidenti”. E perché non sono così evidenti? Perché noi siamo osservatori: con la nostra complessità, con la nostra non-linearità, con la nostra limitatezza, con le nostre lenti, che costruiamo le evidenze cliniche. Per poter arrivare a protocolli conduciamo studi clinici oggettificanti, meccanicizzanti, in cui si studiano 3-4 parametri per volta, e quindi si isolano le variabili.
 
Ad esempio, si selezionano i pazienti che hanno solo una patologia, o si escludono determinate comorbidità. Si strutturano i design degli studi in base a ciò che si vuole verificare o falsificare. Questo ovviamente influenza sia la finestra di osservazione, che le sue tempistiche. In pratica, si riduce la complessità, si tenta di evitare la non-predicibilità che è intrinseca dei sistemi complessi quali noi siamo, e si cerca di operare in modo lineare. Questo modus operandi, quasi senza che ce ne accorgiamo, viene poi riportato anche nella pratica clinica.
 
Spesso agiamo in modo lineare, credendo che il farmaco che prescriviamo abbia un effetto sempre riproducibile e convogliato dove le evidenze ci dicono che vada. Non è così, ovviamente. Ciò che accade nella realtà è che sia il medico sia il paziente sono due osservatori. Nel momento in cui c’è un rapporto terapeutico, essi diventano una coppia di osservatori. I dati e le risposte del paziente consentono al medico di costruirsi la sua rappresentazione; le domande e i procedimenti di ragionamento, affettivi e intuitivi del medico consentono al paziente di migliorare nel suo percorso terapeutico, di accedere a una diagnosi, di aumentare o diminuire il suo grado di consapevolezza, di farsi un’idea del medico. Ovvero, pur col focus sulla salute del paziente, gli osservatori si rappresentano a vicenda.
 
Pertanto, ciò che avviene nella pratica clinica è un intreccio tra un ragionamento algoritmico nella mente del medico (penso ad esempio al processo diagnostico differenziale, che di fatto è un diagramma di flusso) e una considerazione della singolarità, dell’unicità non solo del paziente, ma anche del medico, e del loro rapporto.
 
È questa la pragmatica di cui parla Ivan Cavicchi nel suo ultimo libro. Si pensa infatti spesso che l’EBM non sia l’unica “fonte di verità”, l’unica bussola, perché il paziente è unico, singolo, particolare. In realtà, l’altro motivo principale per cui le evidenze scientifiche e i protocolli non potranno mai essere applicati in modo universale, è che anche il medico è unico, complesso e particolare come osservatore. Ovvero, la medicina non deve essere individualizzata solo per il paziente, ma anche per il medico.
 
Di fatto è già così, solo che, ancora una volta, rimane tutto a livello implicito e inconscio per il medico. Questa consapevolezza sui diversi tipi di processi mentali, affettivi e corporei, ci consente anche di inquadrare meglio l’aiuto che proviene dalle nuove tecnologie. Capiamo infatti così che l’intelligenza artificiale, gli algoritmi, le preziosissime revisioni di letteratura - di cui sono vorace lettrice, per intenderci - ci aiutano a livello di “algoritmo”, di processi automatici, ripetibili e riproducibili.
 
La nostra conoscenza e consapevolezza maturata sul campo, la nostra attitudine, il modo in cui lavoriamo, il significato che per noi il lavoro ha, l’intuito, la capacità di collegamento, il nostro rapporto col paziente, le nostre sensazioni corporee ed emotive, sono invece uniche, irripetibili, irriducibili a un qualsiasi algoritmo. È qui la radice umana del nostro lavoro. Se riusciremo a valorizzarla, ad esserne consapevoli, ad usarla per curare la persona, potremo agire rispettando la natura, la vita, utilizzando gli strumenti al meglio delle loro possibilità, ma consci del fatto che stiamo agendo su più piani. È possibile allora una coerenza in ciò che impariamo, facciamo e proponiamo, che è rapportata all’intera persona e non a qualche numero. Per questo ho coniato il termine di “Medicina Coerente” e ho pubblicato un libro omonimo in merito.
 
Perché ho sentito e sento la necessità di unire un approccio filosofico, epistemologico, alla parte più scientifica. Sento la necessità di coniugare lo studio del corpo a quello della mente e della coscienza, considerandoli in modo sistemico. Sento la necessità di uno sguardo più ampio, capace di abbracciare le logiche della Vita e di usarle a scopo terapeutico.
 
Ed è in questo modo che l’essere osservatori ci consente una pratica coerente, umile, che impara dalla natura, che usa come risorsa la nostra limitatezza, il “qui e ora” nel rapporto col paziente.
 
E allora, ci sarà coerenza tra la teoria così sfaccettata e la pratica così variegata, tra il corpo e la mente, tra ciò che proponiamo come medici e ciò che facciamo noi per curare noi stessi, tra le nostre parole e le nostre azioni. L’EBM continuerà ad essere una fantastica risorsa, che potremo utilizzare in modo consapevole e circostanziato nella nostra medicina. Medicina che è e sarà prima di tutto scienza e filosofia umana, al servizio dell’uomo.
 
Sara Diani
Medico, esperta in Medicina Integrata e Network Medicine
Ricercatrice. Docente all’Università Europea Jean Monnet di Padova in medicina sistemica, costruttivismo e complessità

 
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14 ottobre 2020
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