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L’ospedale ai tempi del virus

di Ivan Cavicchi

Che la necessità di ripensare l’ospedale venga dal nord a causa del coronavirus, o che la stessa necessità venga dal sud, per altre ragioni, ci dice solo che oggi l’ospedale sotto la pressione dei tempi, “scrocchia” troppo e che è arrivato il momento di ripensarlo cioè di ri-spedalizzarlo. Se, come dice Speranza, e io convengo con lui, il DM 70 è inadeguato allora questo decreto è da cambiare

02 MAR - Quanto mi piacciono i film di sottomarini. In tutti, c’è sempre l’episodio di un caccia torpediniere che incontra o intercetta un sommergibile nemico costringendolo ad inabissarsi per sfuggire alle cannonate e al lancio delle bombe di profondità. In queste circostanze il comandante del sommergibile ordina al proprio equipaggio di violare ogni norma di sicurezza, ogni limite di tolleranza, ogni parametro di sopportabilità.
 
A volte, il sommergibile, sfidando la pressione dell’acqua, si posa sul fondo degli abissi e aspetta mentre fuori succede il finimondo dentro si sente la struttura di acciaio dello scafo scrocchiare, lamentarsi con gemiti terrificanti, a volte, alcuni bulloni saltano e l’acqua inizia ad infiltrarsi.
 
L’ospedale che scrocchia
Ecco qualcosa del genere è capitato ai nostri ospedali in prima linea sul coronavirus costretti a far fronte ad una emergenza inusitata a reggere una pressione senza precedenti sulla propria organizzazione e a gestire un sovraccarico inatteso di lavoro ridiscutendo in tempo reale i normali criteri di funzionalità e di priorità di tutto l’ospedale.
 
I malati normali passano in secondo piano, le rianimazioni vengono svuotate e dedicate alle persone infette, saltano le liste operatorie, la medicina elettiva viene stravolta, le divisioni assediate e l’ordine convenzionale interno dell’ospedale lascia il posto ad una sorta di organizzazione discreta, il personale è praticamente sequestrato, con le tende si arriva all’ospedale esteso, cioè capita quello che nessun dm 70, nessun parametro, nessuna linea guida ha previsto.
 
Per quanto indicativa, ho trovato di grande interesse l’analisi della Cimo Fesmed sulle criticità causate al “sommergibile ospedale” costretto a subire al suo interno l’immensa pressione del coronavirus e a rispondere alle bombe di profondità di una emergenza assolutamente imprevista. (QS, 28 febbraio 2020).
 
L’ospedale che ob torto collo si reinventa
Il grande valore del sistema sanitario, quindi, che a proposito di coronavirus, non mi pare sia stato notato, non è stato tanto quello di un ospedale che risponde semplicemente ad una emergenza (da un ospedale normale mi aspetto che faccia il suo mestiere) ma è stato quello di un ospedale impreparato costretto nel suo complesso quasi a reinventarsi in tempo reale.
 
Un conto è un ospedale organizzato per fronteggiare l’elezione e un conto è un ospedale organizzato per fronteggiare lo straordinario, l’eccezione, l’inconsueto. Lo testimonia proprio quanto rilevato dalla ricerca della Cimo Fesmed sull’assenza di protezione degli operatori, sull’assenza di specifiche misure organizzative nel pronto soccorso, sulla mancanza di aree adatte a isolare senza per questo affollare le rianimazioni, le tende fuori degli ospedali ecc.
 
Il coronavirus, quindi, secondo la ben nota regola di inferenza definita modus tollens, è di fatto un argomento che confuta o falsifica l’ordinario, nel senso che ci dice che se da A si deduce B, e se B è, a causa del coronavirus, falso, allora è falso anche A.
 
In ragione di ciò mi trovo completamente d’accordo con il presidente delle Cimo Fesmed (Guido Quici) quando dice due cose:
- che il coronavirus è la dimostrazione che il regionalismo differenziato è una assurdità,
- che il coronavirus è un motivo tra molti altri  per ripensare la nostra sanità.
 
L’ospedale ai tempi del virus
Vorrei far notare che la Cimo, non a caso è la confederazione italiana dei medici ospedalieri, il che vuol dire che il discorso coronavirus, almeno per quanto riguarda l’organizzazione sanitaria, riguarda prima di tutto l’ospedale.
 
Al discorso demagogico e semplicistico della deospedalizzazione di questi anni che alla fine è finito nel taglio indiscriminato di posti letto e con la definizione di standard e volumi, quindi nel dm 70, personalmente, come è noto ho sempre preferito il discorso della ri- spedalizzazione, cioè anziché parlare di “meno ospedale” e basta ho sempre preferito parlare di “altro ospedale”, cioè alla compatibilità ho sempre preferito la compossibilità. (QS, 9 gennaio 2020).
 
Il coronavirus dice sostanzialmente la stessa cosa.
 
Ci dice che se il sommergibile scrocchia allora la dobbiamo smettere di togliere lamiere dallo scafo ma al contrario, come dice Quici, dovremmo adeguatamente rinforzarlo. O meglio ri-spedalizzarlo.
 
L’ospedale il virus e il sud
Ma l’ospedale non va ripensato solo perché c’è il coronavirus, va ripensato perché il dm 70 ormai, anche a detta del ministro Speranza, a proposito di sommergibili, fa acqua.
 
Oltre al coronavirus esiste anche un altro genere di virus che attacca preferibilmente i più deboli ed è quello della diseguaglianza e della discriminazione. Esso proprio sugli ospedali, colpisce particolarmente il sud, cioè praticamente colpisce l’unica cosa che il sud ha. Al sud il territorio, a parte qualche ambulatorio e a parte i medici di medicina generale, di fatto non esiste per cui è l’ospedale che alla fine deve supplire a tutto. Ma se al sud affrontiamo l’ospedale con la logica del dm 70 stiamo freschi.
 
Il dm 70 in pratica quantifica con i vecchi criteri della riforma Mariotti del ‘68, la dotazione di posti letto degli ospedali. Già prima della sua approvazione quindi ai tempi della Lorenzin avevo denunciato i suoi anacronismi. (QS, 5 settembre 2014) e in sede di definizione della nota al def avevo contestato alla Grillo la sua decisione di mutuare il dm 70 tale e quale (QS, “Te lo do io il cambiamento”, maggio 2019).
 
Oggi con il coronavirus da una parte e le diseguaglianze nel paese dall’altra, non possiamo più continuare a pensare l’ospedale solo con la logica della dotazione di posti letto, quindi solo con le logiche volumetriche del dm 70.
 
Casarano e la quarta riforma
Venerdì sera scorso a Casarano, un grosso comune della provincia di Lecce, sono stato invitato a chiudere un convegno affollatissimo organizzato nell’auditoriun comunale, dal PD e da Articolo 1, al quale non potevo non partecipare. Il titolo era “la quarta riforma sanitaria” e sul manifesto affisso su tutti i muri del paese campeggiava il mio rosseggiante “autobus farlocco” con la croce bianca sul fianco.
 
Che un’idea politica come la “quarta riforma” riuscisse ad arrivare fin quasi a S. Maria di Leuca, cioè fin quasi alla punta estrema della Puglia mi stupiva e, non lo nego, mi lusingava non poco.
 
La ragione  del convegno, aveva a che fare con l’ospedale, da ripensare, da riconcepire, da riusare, un bell’ospedale funzionante attrezzato che ancora oggi nonostante le declassificazioni subite in ragione del dm 70 ma anche di poco chiari giochi politici locali, fa ancora 26.000 accessi di pronto soccorso all’anno, molto amato e quindi usatissimo dalla popolazione residente e che nei suoi momenti più gloriosi ha avuto eccellenze da area metropolitana, un ragguardevole parco tecnologico e un organigramma tra i più qualificati. Una specie di policlinico del Salento.
 
Oltre le guerre di campanile
In questi anni, nonostante tante sollecitazioni, non mi sono mai prestato a difendere semplicemente i campanili anche perché resto convinto che tanti ospedaletti vanno chiusi. Ma l’idea base del convegno era tutt’altro che campanilistica. Nessuno, a partire dai promotori, ma anche il presidente della commissione sanità della Puglia (Pino Romano), il senatore Stefàno (PD), volevano difendere l’ospedale tout court, tutti si rendevano conto dei problemi di programmazione regionale, e tutti erano disponibili a discutere non di ospedale ma di sistema ospedaliero.
 
L’idea di fondo di quel convegno, per me era straordinariamente interessante: ripensare la logica  del dm 70, andare oltre la competizione tra ospedali cioè rifiutarsi di litigare  (in questo caso con Gallipoli) per la dotazione di posti letto, e l’assegnazione delle specialità, di ragionare in un altro modo, cioè  di “ospedali riuniti” (l’idea è del segretario locale del PD Gabriele Caputo), quindi di ospedali a gestione integrata (rete e hub spoke), soprattutto di ragionare su un altro modello di ospedale, cioè su un’altra idea di funzionalità, su un altro tipo di lavoro ospedaliero, immaginando ben altre organizzazioni cioè smetterla con i finti dipartimenti e le finte reti, e per questa strada  di rinnovare profondamente il rapporto tra ospedale e territorio qualificando la struttura puntando soprattutto sulla responsabilizzazione delle professioni, lasciando ampi spazi all’auto organizzazione, in modo da offrire al sud un altro genere di ospedale. Ecco perché la “quarta riforma”.
 
Conclusioni
Che la necessità di ripensare l’ospedale venga dal nord a causa del coronavirus, o che la stessa necessità venga dal sud, per altre ragioni, ci dice solo che oggi l’ospedale sotto la pressione dei tempi, “scrocchia” troppo e che è arrivato il momento di ripensarlo cioè di ri-spedalizzarlo. Se, come dice Speranza, e io convengo con lui, il DM 70 è inadeguato allora questo decreto è da cambiare.
 
Mi auguro due cose che:
- il governatore Emiliano e il ministro Speranza, riescano a cogliere l’importanza politica della idea degli ospedali riuniti e di fare di Casarano e di Gallipoli, una esperienza paradigmatica,
 
- che l’adeguamento del dm 70 sia non una ridefinizione solo degli standard, come io temo, con la concessione di qualche eccezione, ma, come ci esorta il coronavirus e il sud, un vero atto riformatore cioè un cambio di logica.
 
Ivan Cavicchi

02 marzo 2020
© Riproduzione riservata

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