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Intervista a Ripa di Meana (Ausl Bologna): "Risparmi e migliore presa in carico con modello a 'rete'. Serve più sinergia tra Mmg e ospedali"

di Emanuela Medi

Questi i pilastri di un modello che ha permesso al Direttore Generale dell'azienda sanitaria unica del capoluogo regionale di migliorare il bilancio dell'Azienda e, allo stesso tempo, offrire ai pazienti un'efficacie modello di presa in carico che ha realizzato anche dei "percorsi di cura" che al momento comprendono 35 patologie

11 MAR - La Ausl di Bologna è una delle più grandi d'Italia e serve circa 870mila abitanti. Il suo Direttore Generale, Francesco Ripa di Meana, giunto al suo secondo mandato, in quest'intervista ha raccontato come, partendo da una situazione di disavanzo di cento e più milioni di euro nel 2002, sia riuscito ad arrivare ad una tenuta dei conti senza chiudere i servizi, eliminando 400 posti letto, ma soprattutto realizzando un sistema di “reti“ che hanno al loro interno delle regole basate sulla qualificazione della domanda. Istituiti, inoltre, dei "percorsi di cura" che al momento comprendono trentacinque patologie. Non mancano le sfide per il futuro, una su tutte: una maggiore sinergia tra i Medici di medicina generale, gli ospedali e le case della salute.
 
L’Azienda Usl di Bologna è una delle Aziende più grandi d’Italia, conta 9 presidi ospedalieri, tre dei quali di grandi dimensioni, con un bacino di utenza di circa 870mila abitanti. Lei è al suo secondo mandato, cosa decisamente rara visto che la vita media dei DG è piuttosto bassa. All’insegna della continuità?
Il secondo mandato che ormai ho avuto più di due anni fa è nel segno di portare a termine uno dei primi processi italiani di grande unificazione che poi sono diventati numerosi in varie regioni. Tre grandi aziende, il Maggiore, il Bellaria e il Bentivoglio si uniscono riconoscendo che la loro dispersione è fonte di diseconomia e di peso eccessivo sul sistema regionale. Una unificazione iniziata nel 2002-2004, ha dei risvolti di lunga portata, e offre delle opportunità a lungo termine. Quindi la sfida è stata quella di rendere operativa tutta la capacità innovativa di un sistema di eccellenza, perché noi non abbiamo unificato tre aziende che non funzionavano ma tre aziende che funzionavano, per realizzare tutte quelle novità che scaturiscono dalla convivenza di mondi professionali, gestionali diversi e per fare questo ci vuole un periodo lungo, parliamo ormai di dieci anni.

Quindi fare rete, come?
L’Azienda di Bologna lo ha fatto, ma la sua potenza è stata anche la capacità di fare rete con gli altri ospedali. Noi abbiamo sicuramente due grandi protagonisti: uno, grande come dimensione, come storia e come polimorfismo che è il Policlinico S. Orsola con sede a Bologna (Azienda Ospedaliera Universitaria), e abbiamo un Ircss noto in tutt’Italia e all’estero, che si chiama il Rizzoli. “Mettere a sistema“ non ha significato solo fare rete attraverso una unificazione strutturale della nostra Azienda, ma ha voluto dire anche avere la capacità di creare altri tipi di relazioni con queste ospedali che sono ospedali della città di Bologna e della provincia di Bologna. Oltre ad essere delle entità a carattere regionale. Lo spirito di rete è questo ed è talmente potente che noi ci siamo arrogati il diritto di seguire il paziente anche quando va dentro queste Istituzioni. Forti della nostra potenza di avere 9 ospedali, di avere tutti i medici di medicina generale, di avere dei servizi importanti come il Trauma Center o la ricerca nelle neuroscienze, abbiamo fatto una forzatura dicendo che i percorsi di cura in alcune patologie non hanno confine e quindi siamo riusciti ad abbattere “le mura” non solo tra le eccellenze che abbiamo ereditato, ma anche di rendere più permeabili i confini tra noi e le altre aziende ospedaliere.

Parliamo dei tre grandi ospedali: il Maggiore, il Bellaria e il Bentivoglio. Quali sono le loro caratteristiche?
Il difetto del modello ospedale, di ogni azienda o unità sanitaria locale è quello che invece di costruire - sulla base di una storia propria, del concentrato di professionalità - e di mettere in luce l’aspetto più importante della specializzazione realizzata da quell’ospedale, si tende a considerarli tutti uguali. Io ho nove Ospedali diversi tra loro, perché ne ho tre con più di 150 posti letto e gli altri attorno ai 120. I tre ospedali di cui parliamo sono: uno il Bentivoglio, un ospedale generale di buona qualità inserito in un territorio della pianura, con un modello organizzativo in corso, in ostetricia e ginecologia. Tra l’altro è l’unico nell’area vasta di Bologna e Ferrara ad eseguire la chirurgia dell’obesità in laparoscopia. Gli altri due, il Maggiore e il Bellaria, sono ospedali che per tradizione hanno avuto ruoli importanti ma spesso sono stati appiattiti dal concetto di ospedale generale. Oggi, il primo, il Maggiore, è sede del più grosso Trauma Center, il che vuol dire avere una vocazione all’emergenza e poter intervenire su tutti i livelli dell’emergenza: chirurgico, medico, in maniera tempestiva e di qualità. Questo ci ha permesso di andare oltre il momento acuto per garantire, dopo la dimissione, un percorso riabilitativo in quella che si chiama la “Casa casa dei risvegli”. Noi siamo già entrati nell’idea che il trauma ha bisogno di un gran concentrato di tecnologia che non si limitano all’”evento” ma che proseguono anche nei percorsi post-trauma. Il Maggiore è stato organizzato secondo un modello innovativo che supera la tradizionale articolazione in “reparti” con la creazione di aree di ricovero omogenee, caratterizzate dai bisogni di cura e assistenza dei pazienti. Attorno a lui infatti, ruotano tutte le professionalità sanitarie e assistenziali, le tecnologie, indipendentemente dalla patologia per la quale è stato ricoverato.
Il secondo ospedale, terzo per dimensione, il Bellaria con una storia molto bella di dispensario tubercolare realizzato negli anni venti da una famiglia e per questo motivo ”nascosto” da una dizione generalista,oggi è polo plurispecialistico e sede dell’Ircss, Istituto delle Scienze Neurologiche di Bologna, centro di riferimento nazionale e internazionale per le Neuroscienze, oltre ad essere polo di riferimento oncologico per la cura e assistenza alle donne con neoplasia al seno e assieme al Maggiore e al S. Orsola, per la chirurgia del tumore al polmone. Anche con il Bellaria, abbiamo rotto i parametri generalisti, realizzando così un ospedale di livello più alto. In questo modo ci confrontiamo con gli altri ospedali, anche da un punto di vista specialistico.

Quindi rete e modello organizzativo per intensità di cura. I due pilastri dell’innovazione?
Io direi che sono due le grandi innovazioni: la prima è stata quella di andare oltre il dipartimento. I dipartimenti clinici hanno rappresentato un enorme passo in avanti perche i dipartimenti di una azienda di questo tipo, sono molto grandi (comprendono almeno 1200 persone) con una attività trasversale in tutti gli ospedali. La loro configurazione ha determinato spesso la rottura di tanti particolarismi, a partire dalle varie equipe ecc. Ma questo non basta. Noi siamo andati oltre dicendo che le “reti“ devono avere al loro interno delle regole e quindi abbiamo iniziato a dividere la domanda: ad esempio per l’interventistica cardiologica per questo aspetto si va in questo ospedale, per quest’altro si va nell’azienda universitaria, per cui le due aziende su uno stesso caso, collaborano al cento per cento. Quindi reti tra ospedali anticipando quello che sarebbe avvenuto con il regolamento nazionale. Abbiamo iniziato a dire che negli ospedali più piccoli si devono dare delle prestazioni in day surgery, è necessario qualificare la domanda e diventare punti di accesso per la seconda grande innovazione che noi abbiamo chiamato i ”percorsi di cura” che, al momento, riguardano almeno trentacinque patologie. In genere sono patologie a percorso cronico attorno a cui ruotano vari tipi di professionisti, con l’obiettivo di riuscire a piegare la logica autoreferenziale..'tu mandami il paziente poi lo mando io'. Il fatto che noi abbiamo tutti i servizi dentro la stessa azienda ci ha offerto la possibilità di mettere a disposizione del malato, tutti i nostri professionisti. Il primo percorso è nato per il carcinoma della mammella, in modo tale che screening, tempestività dell’intervento, plastica, recupero funzionale, recupero psicologico avvenissero tutti in uno stesso luogo, meglio in uno stesso percorso di cura con l’obbligo per i professionisti di mettersi in fila attorno al paziente, anche a volte estrapolandolo dall’azienda. Un altro dei primi percorsi è stato quello della SLA (sclerosi laterale amiotrofica) i cui pazienti gravemente ammalati si trovavano spesso nella condizione di fare i postini da un luogo all’altro per ricevere una diagnosi o una cura, un peso negativo, inaccettabile per il nostro sistema. Quindi le reti diventano delle rotaie su cui viaggiano dei treni e i vagoni sono i percorsi cui noi carichiamo il paziente. Se non ci fossero le reti non potremo passare da un setting all’altro con questa facilità. Quindi, la dimensione dell’azienda e l’organizzazione, ci permette di andare, dall’iperteso allo scompensato lieve, fino al trapianto d’organo con una presa in carico reale del paziente, tale da mettere in tensione tutto il sistema. In questo modo il piccolo ospedale diventa il punto in cui si entra ma da cui si esce: un malato può entrare con un problema di cuore in un piccolo ospedale e uscirne dopo anche un trapianto per andare dal suo medico di medicina generale. Queste due direttrici hanno modificato e valorizzato molto la funzione di una azienda così grande come la nostra e un sistema provinciale così ricco. Noi ora crediamo che dopo 10 anni di unificazione abbiamo capitalizzato ben altro che solo l’economia di scala, le procedure uniche, il numero di dirigenti ridotti (noi abbiamo abolito decine e decine di primariati e di funzioni amministrative , tanto che siamo in procinto di realizzare tra le aziende, un unico servizio amministrativo, un unico laboratorio di analisi che si sta per inaugurare).
Se allarghiamo questa logica a molte altre malattie complesse, noi avremo migliaia di persone che vedono un progetto che si sviluppa attorno a loro. Questo, ripeto, ha voluto dire cambiare la logica dei dipartimenti, ha voluto dire anche mettere in tensione alcuni luoghi di inefficienza che di conseguenza sono stati evidenziati e modificati. Ha significato fare sistema.

Tutto questo ha comportato una riduzione della spesa?
Il pareggio di bilancio in una situazione come questa era lontano. Noi siamo partiti da un disavanzo di cento e più milioni di euro nel 2002, abbiamo ridotto il nostro gap in maniera sostanziale e quando c’è stato il momento della crisi nel 2009-10 in cui c’è stato chiesto non solo di andare a una tenuta verso il pareggio di bilancio ma anche a una riduzione di costi, abbiamo accettato la sfida. Abbiamo tenuto aperti i servizi pur non avendo rinnovata la dotazione economica di 400 milioni di euro, che ha comportato la dipartita di molti medici. Non abbiamo avuto letti in corridoio pur avendo eliminato 400 letti utilizzati, abbiamo potuto portare al tavolo regionale dei risparmi di decine e decine di migliaia di euro sul fatto che la costruzione di reti, di dimensionamento di ospedali più piccoli, della presa in carico del paziente vissuta e non raccontata potesse rendere tutto il sistema più leggero in una dimensione più ampia di una piccola azienda. La nostra azienda ha un miliardo e settecentocinquanta milioni di fatturato, compreso il S. Orsola superiamo i due miliardi pari al 2% del fondo nazionale e se noi riusciamo a fare meglio in modo più leggero centreremo l’obiettivo. E’ il momento e non lo nascondo, della fattibilità. Certo per noi è anche importante notare che prima di attuare i risparmi è importante costruire una azienda veramente unificata. La crisi aiuta perché noi possiamo mostrare agli operatori un futuro in cui le singole aziende da sole, non sono in grado di realizzare.

In fatto di riorganizzazione dei servizi tra poco sarà operativo il Laboratorio Unico dell’area metropolitana di Bologna (LUM), di cosa si tratta?
Alcuni servizi, che non sono a contatto con il cittadino, possono essere centralizzati - non parlo solo di funzioni amministrative - come i laboratori di analisi e il servizio trasfusionale. Noi avevamo una miriade di laboratori e otto primari, poi successivamente questi sono diminuiti, due anni fa abbiamo scelto con il S Orsola di unificare i laboratori, mantenendo il loro primario,e solo successivamente si - aggiunto il laboratorio di Ferrara. Un laboratorio con trenta milioni di referti , unico nel panorama nazionale , di cui più di 22milioni solo al Maggiore. Non abbiamo chiuso nessun centro prelievo e questo ha significato una standardizzazione e tracciabilità molto difficile. Abbiamo deciso che esami particolari come la microbiologia possano essere eseguiti in laboratori particolari proprio per garantire la massima attendibilità e sicurezza. quindi entro la fine dell’anno avremo una struttura con alto livello di automazione e di riduzione del personale.

Quali tappe mancano in questo, diciamolo, ambizioso progetto di ristrutturazione?
Il processo attuale di revisione della rete ospedaliera con i percorsi, possiamo datarla ormai a tre anni fa, ma dobbiamo aspettare ancora prima di avere tutti i dati: per alcuni settori già li abbiamo ad esempio abbiamo una alta concentrazione di dati sulla maternità che ci ha consentito di definire la quantità di letti necessaria per ciascun ospedale. Le cose che non abbiamo fatte sono ancora molte ma quella su cui siamo maggiormente impegnati è il coinvolgimento del territorio dove la componente del medico di medicina generale non è tesa a raccogliere queste sfide. I medici di medicina generale sono abituati a lavorare sul singolo paziente e non in sinergia con gli ospedali e con le case della salute e su questo dobbiamo lavorare molto.
 
Emanuela Medi 

11 marzo 2014
© Riproduzione riservata

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