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La crisi dell’ospedale di Cosenza è solo l’inizio

di Ettore Jorio

Quanto sta accadendo all’Annunziata dove i medici annunciano il blocco delle attività è il sintomo anticipatore di quanto succederà il moltissime regioni. Non si può continuare così. Bisogna riscrivere le regole soprattutto quelle che disciplinano il commissariamento delle Regioni. Perché spesso gli effetti della medicina prescritta è peggiore del male

26 MAG - Ciò che sta accadendo all’Ospedale dell’Annunziata di Cosenza, ove i medici “scioperano” ad oltranza, è il sintomo anticipatore di quanto succederà, di qui a poco, in moltissime regioni ove le medesime anomalie assistenziali si manifestano da tempo. Aziende e presidi ospedalieri sono ben oltre il collasso: senza più medici nei pronto soccorso; senza anestesisti e persino senza le barelle, oramai succedanee dei comuni lettini. Il tutto a fronte di utenti che reclamano e aumentano, in cerca di quell’assistenza che altrove non trovano. Altri che muoiono.
 
D’altronde, era facile prevederlo. La manifestazione del disagio, che andava via via a registrarsi, è stata in massima parte fino ad oggi evitata grazie al senso di abnegazione e di responsabilità dimostrato dal personale sanitario ospedaliero, che ha mantenuto aperti i “cancelli della fabbrica”, facendo esclusivamente ricorso al sacrificio personale degli operatori ivi impegnati. Gli stessi oggi protestano non per una rivendicazione salariale bensì perché lasciati da soli ad affrontare la domanda di salute, per lo più inevasa. In buona sostanza, per essere messi in condizione di lavorare e di dare il meglio di se stessi!
 
Tutto questo è il prodotto ultimo di una politica sanitaria dissennata, ove emerge il consolidato disinteresse verso il territorio. Ciò in quanto si è erroneamente supposto che fosse sufficiente riempirsi la bocca di deospedalizzazione senza tuttavia preoccuparsi di restituire ai cittadini un’assistenza alternativa. Si è pensato per anni (e lo si continua a fare anche oggi) che la sanità si faccia esclusivamente per saldi economici e non già per valori assistenziali. Come se bastasse alla collettività spendere meno (tutto questo è ancora da dimostrare, atteso che è facile provare il contrario!) a prescindere da chi campa e da chi muore.
 
In una tale ottica, tutto ha assunto lo spessore della farsa. Ci si dice che i disavanzi sono contenuti, senza dirci che è il risultato (quasi esclusivo) del blocco del turnover, che desertifica le corsie in senso lato. Si dà certezza che la quota di fondo sanitario spettante alle Regioni non viene affatto diminuita rispetto a quella precedente, omettendo di aggiungere che si obbligano quelle messe male a pagare gli ingenti ratei dei mutui trentennali di copertura dei debiti miliardari pregressi con i soldi destinati ai Lea. Ci si ostina a difendere l’attuale sistema della salute senza accorgersi che esso è stato ed è ancora ad appannaggio della politica, che dispone delle nomine, e dei corrotti/corruttori che l’affollano, entrambi di ostacolo alla percezione concreta del diritto alla salute.   
 
Dunque, la sanità è divenuta un problema di tipo culturale. Ove per sistema di assistenza sanitaria si ritiene quello che ci troviamo, abituati come siamo – nei ceti prevalenti – a godere dei posti letto e delle prestazioni di alto profilo diagnostico, solo per fare qualche esempio, messici a disposizioni dagli amici degli amici e non già quello in cui la gente comune trova a fatica la “ospitalità” necessaria per la propria salute. Un’assurdità che fa a pugni con la Costituzione, atteso che soventemente si arriva con fatali ritardi a diagnosi precoci e, di conseguenza, a referti tardivi che prendono atto dell’irrecuperabile!
 
Siamo arrivati a ciò perché così abbiamo voluto, accontentandoci per anni di quello che passa la novella “mutua”, nonostante lo storico successo conseguito con la grande riforma del 1978, garante dell’universalismo, dell’assistenza globale e della uniformità. Una stupenda occasione legislativa consumata da una sopravvenienza di provvedimenti, spesso fini a se stessi, che ne hanno svilito la portata nonché generato un debito spaventosamente crescente.
Tutto questo ha contribuito a che si insediasse nel linguaggio comune (ma anche in quello governativo) il massimo del pessimismo, segno quasi della resa. Cosicché il “programma operativo di riorganizzazione, di riqualificazione o di potenziamento del Servizio sanitario regionale” (così lo ha definito la legge n. 311/2004 che lo ha introdotto), destinato al recupero del malfunzionamento del sistema sanitario di ben individuate aree geografiche, è divenuto il “piano di rientro”, cui sono sottoposte oggi otto regioni (arrivate sino a dieci) e, con esse, la metà della Nazione. Con questo, è stato assegnato allo strumento un valore nettamente al ribasso, dal momento che il rientro alla normalità dei conti è cosa ben diversa (non solo nel nomen iuris) dall’aspettativa di riorganizzare e riqualificare un servizio sanitario, da sempre inefficiente e, in quanto tale, non puntuale nel garantire l’esigibilità del diritto alla tutela della salute.
Non si può continuare così. Bisogna riscrivere le regole soprattutto quelle che disciplinano il commissariamento delle Regioni inadeguate a svolgere il loro ruolo, dal momento che spesso gli effetti della medicina prescritta sono peggiori del male.
 
A proposito di regole, necessita cancellare, a monte, quella abitudine che fa sì che il Patto per la salute sia divenuto - a discapito della sana programmazione fatta di investimenti che si ammortizzano nella distanza - il prodotto di quel gioco macabro che si esercita nella Conferenza Stato-Regioni. Quella istituzione da rivedere e da rivalutare, anche in relazione alla sua esistenza. Quegli incontri divenuti sempre di più “salottieri”, ove si decide come dividere il quantum, prescindendo da ciò che serve realmente, e dove la decisione appartiene a pochi, anche perché gli altri ne sottovalutano da sempre la portata.
 
Così continuerà a crescere il malessere, incancrenito dalle autorità commissariali che, per come concepite, potranno tutt’al più  insegnare alle collettività, cui le stesse sono preposte, la “ragioneria del dolore”, piuttosto che rimettere in piedi il servizio sanitario regionale affidato alle loro “cure”.  Anche queste forme di gestione sostitutiva vanno riviste, nel senso che dovranno intervenire costruttivamente sul sistema della salute e non giù esercitando attività meramente liquidatorie.
La civiltà di un Paese la si dimostra principalmente con il funzionamento di due sistemi: la capacità del proprio sistema scolastico e lo stato di efficienza dell’assistenza salutare. Sia nell’uno che nell’altro, il Paese ha tanto fare.
 
 prof. avv. Ettore Jorio
 Università della Calabria e Fondazione trasPArenza

26 maggio 2014
© Riproduzione riservata

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