Tornare ai Comuni? Va bene. Ma per sistemare la sanità non basta un cambio di “gerenza”
di Ivan Cavicchi
Qualsiasi discorso sulla gerenza gestionale e amministrativa della sanità fuori da un progetto di riforma del sistema non è credibile. Governo, strategia, organizzazione, partecipazione sociale e prassi professionali non sono separabili
23 MAR -
Carlo Palermo con argomenti tutt’altro che infondati ha riproposto la questione della gerenza del sistema sanitario (
QS 18 marzo 2015). Uso il termine gerenza e non governance per indicare in senso istituzionale la soluzione gestionale e amministrativa “
che conduce” e “
fa andare” il sistema sanitario. Gli anni ‘90 furono interamente dominati da una questione simile e il verso era quello di togliere la gerenza ai comuni per darla alle regioni. Il mio amico Carlo a circa 25 anni di distanza, quindi dopo aver abbondantemente assaggiato il budino regionale e aziendale, ci propone un ragionamento inverso:
· rimettere il comune a capo di sottosistemi di servizi soprattutto quelli con una natura territoriale lasciando alle regioni tutto il resto
· ripensare l’azienda con un cda di nomina comunale .
Alla prova del cucchiaio il budino evidentemente non gli è piaciuto.. ma come dargli torto?
Negli anni ‘90 la questione della “gerenza” era soprattutto intesa come una contraddizione costituzionale. La riforma del 1978 non senza dei validi motivi l’aveva affidata ai comuni e non alle regioni come prevedeva la Costituzione. I comuni, solo dopo un decennio, nei confronti delle regioni calarono le brache soprattutto perché la loro esperienza gestionale fu a dir poco fallimentare affidata a comitati di gestione, che non erano sbagliati in via di principio, ma che furono lottizzati in modo scriteriato facendo le peggiori cose. Era il tempo in cui il PCI sosteneva lo slogan “fuori la politica dai comitati di gestione”.
Oggi Carlo Palermo soprattutto dopo gli ultimi provvedimenti di riordino della sua regione ma anche di tante altre, ci dice due cose:
· oggi sono le regioni e le aziende che si sono dimostrate incapaci, cioè non hanno fatto meglio ne dei comuni e ne dei comitati di gestione
· i processi in atto di riordino regionale stanno pericolosamente accentrando la gerenza a danno della territorialità.
La sua proposta alla fine è chiara: tornare all’impianto istituzionale della 833, quindi riformando la “riforma della riforma” (502/517) tenendo conto dei nuovi orientamenti sul Titolo V che sta spostando la tutela sanitaria dalle regioni allo stato centrale circoscrivendo le titolarità delle regioni a programmazione e organizzazione.
Quale discussione? In primo luogo mi dichiaro d’accordo con Carlo sulla necessità di ridefinire la gerenza della sanità. Per non ripetere proposte già fatte rimando a “Sanità, un libro bianco per discutere” (2005), dove proponevo “l’azienda sui generis” cioè una azienda di servizio a management diffuso e a partecipazione sociale”, al saggio “Governo e compossibilità” (2013) dove proponevo il governo multilevel nel quale il comune era recuperato a funzioni di salute, e su questo giornale insieme a Troise per citare rispettivamente gli articoli più recenti (
QS 9 aprile 2014 e
QS 17 maggio 2014) dove discutevamo entrambi di come le prassi professionali sono funzioni alla governance e non indipendenti da essa e il contrario.
In secondo luogo non credo che in questa situazione esista una istituzione magica capace da sola di risolvere i problemi di gerenza della sanità. Negli anni ‘90 regioni e aziende dovevano salvare la sanità dall’ingovernabilità e la governabilità della sanità è peggiorata perché esse prive di un vero pensiero riformatore non sono state in grado di dare corso né alla razionalizzazione della 229, né alla più recente spending review portandoci dritti dritti tra clientele sprechi e malaffare ai tagli lineari. Tutti i livelli istituzionali di un eventuale governo multilevel oggi hanno un limite culturale di fondo che è di tipo progettuale e riformatore. Per me qualsiasi discorso sulla gerenza della sanità fuori da un progetto di riforma del sistema sanitario non è credibile. Governo, strategia, organizzazione, partecipazione sociale e prassi professionali non sono separabili.
In terzo luogo il mio amico Carlo propone di suddividere la gerenza dei servizi tra Regioni e Comuni distinguendo quelli prossimi ad una idea di territorialità da quelli da questa distanti e quindi con ambiti sovra territoriali. Personalmente ritengo che la nozione di territorio ormai per tante ragioni abbia perso di senso di significato. Cioè non è più una idea chiave per cui non la userei per ridefinire il sistema di gerenza. Il processo di riduzione del numero delle Asl è iniziato con De Lorenzo nel 1992 ma con esso è iniziato anche un crescente processo di deterritorializzazione. Oggi gli ambiti dei distretti hanno preso il posto di quelli delle aziende e quelle delle aziende sono diventati aree vaste sub regionali. In Toscana, ma anche in Emilia ormai tra macro aree e aree vaste siamo ai “
cantoni” sanitari.
Anche per questo non credo più da tempo all’integrazione ospedale territorio. E’ una idea marginalista che continua ad essere ribadita stancamente ma solo perché non disponiamo di una idea forte di unità delle tutele. Ci illudiamo di integrare le divisione del sistema con l’attak. Quello che nasce per essere diviso è difficilmente integrabile. Se vogliamo davvero integrare dobbiamo ridiscutere il taylorismo delle nostre organizzazioni e partire da ciò che unisce non da ciò che divide.
In quarto luogo se l’idea di territorio è usurata serve una nuova idea che almeno ne sviluppi le antiche idealità. Da tempo nei miei libri al posto di territorio, che per la gerenza è un concetto di spazio da amministrare con dei servizi decentrati , uso il concetto di comunità, che per me è un soggetto che partecipa alla gerenza e quindi è a sua volta servizio.
E’ da questa idea che nascono le proposte di distretto di comunità e quelle che puntano a riconcepire il sistema dei servizi nel tentativo di rimettere insieme cura e comunità di persone e che troverete ben descritte soprattutto nei lavori del 2012/13 (I mondi possibili della programmazione sanitaria...; il riformista che non c’è...). Carlo Palermo arriva vicino alla questione “comunità”, parlando di rafforzare il rapporto tra questa e la sanità, di cda delle nuove aziende quale espressione della comunità di riferimento fino a parlare di sussidiarietà e di vicinanza “ai luoghi della cittadinanza”.
Nello stesso tempo continua a parlare di “nuovi ambiti territoriali” di “lontananza dai territori”...e di “bacini di utenza”...cioè continua a ragionare con la logica dei luoghi e non con quella dei soggetti sociali. Assumere la comunità in luogo del territorio significa assumere i contenuti in luogo dei contenitori, quindi i loro bisogni, le loro caratteristiche, le loro organizzazioni sociali, le istituzioni che le rappresentano, le loro attività economiche ,le loro culture, le loro esistenze, con almeno tre vantaggi:
· una comunità non può essere esterna alla gerenza anzi essa garantirebbe davvero una corretta idea di federalismo cioè la condivisione dei poteri tra le istituzioni e la società civile
· non si può produrre salute primaria senza una comunità titolare di diritti e di doveri alla salute per cui tutta la partita della costruzione e produzione di salute primaria andrebbe tolta alle aziende e alle regioni e data ai comuni cioè alle comunità rispetto alle quali il sindaco diventerebbe il primo sponsor di salute
· la comunità di salute dovrebbe essere concepita come l’hub del sistema, il distretto di comunità la cerniera tra la comunità e tutto il resto cioè lo spoke .
Ringrazio Carlo Palermo per aver riproposto la questione politica della gerenza ma è evidente che dobbiamo continuare la discussione.
Ivan Cavicchi
23 marzo 2015
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