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Hcv. Cosa ne pensano gli economisti. Mennini (Tor Vergata) e Cicchitto (Cattolica)


04 DIC - “Per discutere di costi dell’epatite C vale la pena di ricordare che la crescita delle spese cresce in maniera esponenziale all’aumentare della gravità della patologia. Non solo per le spese dirette, ma anche per l’impatto sulla qualità della vita dei pazienti e sulla loro produttività. Questo è il punto di partenza per capire come ridurre l’impatto della malattia sul Paese”. Le parole sono di Saverio Mennini, docente di economia sanitaria all’Università “Tor Vergata” di Roma, nel corso del convegno “Riflessioni sullo stato dell'arte dell'Hcv”, promosso da I-THINK e tenutosi a Roma.
 
Insomma, bisogna tener conto, oltre che dei costi diretti, anche di quelli indiretti, che in Italia sono anche maggiori dei primi. “Gli oneri per le patologie Hcv correlate oscillano per i costi diretti tra i 333 milioni di euro se la prevalenza è al 2% e i 613 se la prevalenza è al 3,5%, ma salgono per i costi indiretti addirittura tra 408 e 715 milioni di euro a seconda della prevalenza”, ha spiegato l’esperto. “Per risparmiare, dunque non vale forse tanto la pena tagliare sulla spesa sanitaria pubblica tout court, in maniera lineare, quanto più ottimizzarla”.
Anche perché i livelli di spesa sanitaria in Italia sono già piuttosto bassi rispetto all’Europa, e si sono negli ultimi anni attestati tra il 7,3 e 7,5 per cento del Pil, che comunque non è altissimo rispetto ad altri paesi del continente. E i finanziamenti sono sì cresciuti, ma a tassi più bassi che nel resto d’Europa. “Nel 2000 la spesa farmaceutica italiana era superiore del 19% rispetto alla media Ocse, ma già nel 2002 era superiore dell'8% e nel 2003 la situazione si è cominciata a invertire e da lì la spesa è stata sempre minore della media europea”, ha spiegato Mennini. “Al 2009 la situazione era sostanzialmente ribaltata rispetto a dieci anni prima, risultando minore del 16% rispetto alla media Ocse”.
Ma allora come razionalizzare i finanziamenti? La soluzione – secondo l’esperto – potrebbe essere quella del cosiddetto disinvestimento. “Dovremmo sostenere l'introduzione di farmaci nuovi, in modo però che questi subentrino a quelli più vecchi e superati, così da garantire farmaci efficaci ai pazienti, e allo stesso tempo remunerare il sistema industriale ed eliminare le tecnologie non attuali”.
Perché tutto questo accada, però, e per smettere di dover operare di anno in anno tagli lineari alla spesa che non permettono alla sanità di sopravvivere, c’è bisogno di una pianificazione che non si fermi a soli sei mesi o un anno. “Si deve intervenire gradualmente – ha spiegato Mennini – e coinvolgere le persone interessate. In altre parole, ai tavoli della spending review deve partecipare chi studia la spesa sanitaria quotidianamente”.
 
Guarda le slide di Mennini.
  
 
Ma non solo sulla spesa potrebbe essere importante uno sguardo più a lungo termine. “Anche per i farmaci – soprattutto per quelli per l’epatite C – i risultati vanno osservati sul lungo termine”, ha spiegato Americo Cicchetti, direttore dell’Alta Scuola di Economia e Management dei Sistemi Sanitari dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, anche lui intervenuto al convegno. “Mentre il beneficio di un farmaco in oncologia si vede a 3 o 6 mesi, quello di una molecola che agisce sull’epatite C si valuta a 20 o 30 anni. E per questo la valutazione del rapporto costi benefici deve essere fatta su lungo termine”.
Una valutazione che va fatta – ad esempio – anche per Boceprivir e Telaprivir. “Se calcolato su cinque anni il rapporto costo efficacia di questi farmaci è sfavorevole, se invece lo si osserva su dieci o venti anni, quando comincia a pesare il ‘risparmio’ su tumori e complicazioni più severe, si capisce che soprattutto selezionando il target di persone a cui somministrare le molecole il rapporto costo efficacia comincia a cambiare”, ha detto l’esperto.
La selezione di una popolazione di pazienti su cui usare un farmaco lascia però delle questioni aperte. “Rimane il problema anche etico di ‘selezionare’ il tipo di paziente”, ha continuato Cicchetti. “Per risolvere anche questo ultimo problema non da poco è per questo utile molto utile avere una discussione pubblica: un audit tra scienziati (epatologi e infettivologi), economisti, associazioni dei pazienti. E in futuro, magari, anche la stessa Aifa. Solo questo meccanismo può portare tutte le evidenze a chi deve fare questa difficile scelta: non solo quelle cliniche ma anche quelle economiche, sociali, etiche”.

04 dicembre 2012
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