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Il cervello ai tempi dello smartphone. Intervista al professor Di Francesco


19 OTT - Michele Di Francesco, Professore ordinario di Logica e Filosofia della Scienza e Rettore dell’Istituto Universitario di Studi Superiori IUSS di Pavia, risponde ad alcune domande riguardo a come la tecnologia ha cambiato il modo di vedere all'interno del cervello, ma anche se e come ha cambiato l'organo stesso.
 
La rivoluzione delle neuroscienze è ritenuta uno degli sviluppi scientifici più importanti a cavallo tra la fine del secolo scorso e l'inizio di quello attuale: quali sono stati i passaggi fondamentali di questa svolta? È legata solo all’evoluzione della tecnologia o anche ad altri fattori?
Negli ultimi anni la tecnologia ci ha messo a disposizione apparati straordinariamente potenti per la visualizzazione dei processi cerebrali, ma la rivoluzione delle neuroscienze cognitive è in realtà iniziata prima, verso la metà del ’900, quando si è iniziato a pensare che la mente potesse essere studiata con strumenti empirici, come un pezzo di natura. Per secoli si è guardato con sospetto all’idea di studiare su basi scientifiche i fenomeni mentali: a livello filosofico, prevaleva un modello dualistico, ovvero l’idea che mente e corpo fossero due cose separate e distinte. In Psicologia negli scorsi decenni si era affermato l’approccio di tipo comportamentistico, in base al quale si descrivevano i comportamenti osservabili senza preoccuparsi di capire cosa avvenisse all’interno della scatola nera, del cervello.
Nel momento in cui le tecniche di neuroimaging ci hanno permesso di guardare dentro il cervello, è prevalsa definitivamente l’idea che i processi mentali sono comunque processi naturali che possono essere sottoposti a indagine empirica per comprenderne non solo la fisiologia ma anche la patologia, e decidere come intervenire quando il cervello, come altri organi, si ammala. In questo modo si è potuto riconoscere, e cominciare a studiare, la stretta correlazione che c’è tra la mente, dimensione della soggettività, della razionalità, dell’esperienza e dei desideri, e il cervello, quest’organo biologico meraviglioso e straordinariamente complesso fatto di neuroni, scambi elettrochimici e sinapsi.
 
Per secoli filosofi, medici, studiosi della psiche si sono interrogati sulla natura della mente, proponendo ipotesi, teorie, sistemi. Poi a un certo punto, appena pochi anni fa, si è potuto guardare direttamente all’interno del cervello e studiare con metodi scientifici aspetti del suo funzionamento che prima sfuggivano alla nostra osservazione. In che misura tutto questo ha cambiato non solo la conoscenza del cervello e della mente ma la stessa nozione di essere umano?
Certamente alcune visioni della mente e quindi dell’essere umano sono diventate molto meno probabili, molto meno difendibili. Sono stati superati alcuni pregiudizi, soprattutto filosofici, come il fatto che ragione ed emozione siano in contrasto tra loro. In realtà si è visto che i processi del ragionamento presuppongono la collaborazione tra aree razionali e aree emotive, che interagiscono in modo armonioso per produrre un comportamento adattivo in grado di assicurare la sopravvivenza dell’individuo e della specie. Le conoscenze attuali dei processi di ragionamento hanno ridimensionato molte teorie, ma questo non significa che oggi si possa discutere dei fenomeni mentali studiando soltanto il cervello ed eliminando completamente le scienze umane: quando parliamo dei fenomeni mentali ci riferiamo a come è fatta la persona, e la persona non è soltanto il suo cervello, entrano in gioco anche la dimensione psicologica, relazionale, sociale. E certi interrogativi anche di natura filosofica sono ancora attuali: ad esempio, fino a che punto si può dire che una sensazione di felicità o di tristezza non sia altro che uno stato cerebrale ovvero un determinato stato elettrochimico di una materia? Oppure, se vogliamo comprendere la relazione affettiva tra un bambino e i genitori nei primi mesi di vita, non possiamo utilizzare solo concetti di tipo neurobiologico, ma dobbiamo fare ricorso anche a categorie di tipo psicologico, sociologico, culturale.
 
Una disciplina di grande interesse è quella delle neuroscienze sociali, ovvero la conoscenza delle basi neurologiche delle emozioni: che implicazioni può avere questa nuova disciplina sulla conoscenza dell’essere umano e sulla convivenza tra le persone?
Le neuroscienze sociali studiano il modo in cui il cervello contribuisce alle attività degli esseri umani in quanto animali sociali. La scoperta fondamentale è che il nostro cervello è progettato per essere sociale. Ci sono funzioni cerebrali progettate per farci parlare, per consentirci di essere animali linguistici che comunicano con gli altri. Le tecniche di neuroimaging hanno confermato l’ipotesi che la capacità degli esseri umani di produrre enunciati grammaticali è innata, biologica, e che le regole fondamentali del linguaggio sono comuni a tutti i linguaggi. Il nostro cervello ha già una sua grammatica ed è in grado di riconoscere gli errori. Poi ci sono funzioni cerebrali emotive che ci aiutano nella relazione con gli altri, permettendoci di entrare in sintonia e quindi di capirli anche empaticamente. Da questo punto di vista, una delle scoperte più notevoli, frutto della ricerca italiana, è quella dei neuroni specchio, ovvero le strutture cerebrali alla base della comprensione delle intenzioni altrui. I neuroni specchio si attivano sia quando un individuo prepara una determinata azione, per esempio l’afferrare un oggetto, sia se lo stesso individuo vede qualcun altro compiere la stessa azione. In entrambi i casi si attivano le stesse aree pre-motorie, che sono quindi una sorta di ponte tra individuo e individuo e potrebbero essere la base biologica della comprensione dell’azione umana e dell’empatia tra le persone.
Altra area di ricerca nell’ambito delle neuroscienze è la neuroeconomia, ovvero lo studio dei processi decisionali in ambito economico, che ha messo in discussione l’idea che i soggetti vadano idealizzati come decisori razionali, idea portante dell’economia classica. Il funzionamento delle strutture cerebrali legate alla razionalità e alle emozioni ci dimostra che non è così, che le scelte non sono frutto di percorsi esclusivamente razionali, ma esistono sistematici errori cognitivi che guidano le nostre scelte.
 
A proposito di etica, la possibilità di guardare dentro il cervello e magari di controllarlo, apre la strada a incubi da fantascienza, a scenari da ‘Grande Fratello’?
Ogni nuovo strumento di conoscenza può rivelarsi uno strumento di liberazione o di oppressione. Esiste effettivamente la possibilità di utilizzare i risultati neuroscientifici per cercare di scoprire i contenuti dei pensieri altrui. E hanno fatto discutere alcune sentenze di tribunali che hanno concesso delle attenuanti a persone accusati di crimini sulla base di un’accertata predisposizione neurogenetica a determinati comportamenti. Altro tema da affrontare è quello del doping cognitivo, ovvero la possibilità di influenzare le nostre prestazioni mentali utilizzando dei neurostimolatori. Oppure il rischio di trattare ogni forma di disadattamento, al di là dei comportamenti chiaramente patologici, come problema medico, come un “cervello che non funziona”, cercando magari di mettere a punto una pillola della felicità invece di intervenire sui determinanti sociali del disagio.
 
Alla luce dell’evoluzione della società e della cultura il nostro cervello è lo stesso di 2.500 anni fa? E come sarà il cervello del futuro?
Negli ultimi millenni il cervello non è mutato nella sua struttura biologica, ma le sue prestazioni si sono arricchite grazie all’interazione culturale. Il cervello è un organo molto plastico, si adatta moltissimo in funzione di come viene stimolato. La cultura non può cambiare i geni e non possiamo certo procurarci delle capacità che il nostro cervello non ha, ma vi è un processo di continuo cambiamento per adeguarsi all’ambiente. Il cervello degli aborigeni australiani e quello degli abitanti di New York hanno gli stessi principi biologici, ma la gamma di rapporti con l’ambiente, le abitudini cognitive e di pensiero sono profondamente diverse. E anche il cervello dei ragazzi di oggi certamente si adatta all’esposizione a smartphone, computer e tablet che avviene fin dai primi anni di vita. La base biologica è uguale, ma è l’organizzazione che cambia.
E questo è solo il principio: con le nuove tecnologie, i nuovi modi di interagire mente-macchina, si delineano una serie di processi che possono modificare profondamente il modo di funzionare del nostro cervello e lasciano intravedere anche un cambiamento più radicale. È il grande tema del post-umanesimo, della possibilità di andare oltre i limiti della nostra specie: la tecnologia e la nostra cultura scientifica potrebbero modificare la nostra biologia, lo stesso modo di funzionare del cervello. Quali saranno le conseguenze? E le nostre responsabilità etiche? Ancora una volta, come si vede, la neurobiologia non annulla lo spazio della filosofia e i problemi filosofici ritornano in forme nuove.

19 ottobre 2013
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