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Osteoporosi severa: in Regione Toscana avviato tavolo di lavoro per un PDTA dedicato alla gestione della patologia

di Marzia Caposio

Interventi sul territorio e coinvolgimento della medicina generale per diffondere la cultura dell’innovazione farmacologica. Nel terzo appuntamento organizzato da Fondazione Charta le proposte degli esperti per prevenire le fratture da fragilità e ottimizzare la gestione del paziente

23 DIC - La gestione dell’innovazione terapeutica nell’ambito dell’osteoporosi. È stato questo l’argomento al centro del terzo incontro virtuale di una serie di tavoli regionali organizzati da Fondazione Charta dal titolo “Open discussion sul valore delle nuove terapie farmacologiche nel trattamento dell’osteoporosi severa in donne in post-menopausa ad alto rischio di frattura”. Il convegno ha voluto affrontare la tematica in Regione Toscana e ha visto la partecipazione di Achille Caputi, Professore ordinario Farmacologia, Università di Messina; Paolo Cortesi, Farmaco-Economista, Università degli studi Milano-Bicocca; Fondazione Charta; Fulvio Moirano, CEO, Fucina Sanità; Stefano Gonnelli, Professore Ordinario Medicina Interna, Università degli Studi di Siena; Maria Luisa Brandi, Presidente Osservatorio sulle Fratture da Fragilità (O.F.F.); Leonardo Gianluca Lacerenza, Responsabile UOC Farmaceutica Ospedaliera Grosseto, USL Toscana Sud-Est; Fabiola Del Santo, Direttore U.O.S Coordinamento Gestione Beni in Conto Deposito, UOC Farmaceutica, Ospedaliera, Azienda Usl Toscana Sud Est e Fabio Lena, Direttore Dipartimento del Farmaco, USL Toscana Sud est
 
Per poter parlare di innovazione terapeutica e di costo efficacia è necessario inquadrare prima la patologia, le sue risultanze sul Servizio sanitario nazionale e sui pazienti ed i precedenti trattamenti. L'osteoporosi è una malattia sistemica dell'apparato scheletrico, caratterizzata da una bassa densità minerale e dal deterioramento della micro-architettura del tessuto osseo, con conseguente aumento della fragilità ossea. Questa situazione porta ad un aumentato rischio di frattura (in particolare di vertebre, femore, polso, omero, caviglia) per traumi anche minimi. L’incidenza di fratture da fragilità (FF) aumenta con l’aumentare dell’età, particolarmente nelle donne. Nel corso della vita, circa il 40% della popolazione incorre in una frattura e in Italia si stima che l’osteoporosi colpisca circa 5.000.000 di persone, di cui l’80% sono donne in post menopausa. Le FF per osteoporosi hanno rilevanti conseguenze, sia in termini di mortalità che di disabilità motoria, con elevati costi sia sanitari sia sociali. Inoltre, l’effetto della terapia antifratturativa è tanto maggiore quanto maggiore è il rischio iniziale.
 
Si capisce bene quanto sia importante per questa patologia l’azione di prevenzione primaria e secondaria.Come precisato da Achille Caputi, il rischio di una seconda frattura osteoporotica aumenta durante l’intero follow up e il rischio rimane imminente anche negli anni successivi. Inoltre, nelle donne in menopausa, una frattura, indipendentemente dall’essere traumatica o meno, comporta un rischio aumentato di nuova frattura. Ecco perché è importante intervenire tempestivamente con una terapia farmacologica: “Se andiamo a considerare i trial clinici vs placebo o vs vitamina D, vediamo che qualunque trattamento oggi disponibile comporta una riduzione del rischio di rifrattura. Possiamo quindi dedurre – ha precisato Caputi –  che i soggetti che hanno già subito una frattura da fragilità sono maggiormente a rischio di ulteriori fratture e che il rischio aumenta al crescere del numero e della severità delle precedenti fratture. Inoltre, il rischio sembra elevato immediatamente dopo la prima frattura specialmente nell’anno seguente e tale condizione e rimane fino ai 10 anni successivi”. I farmaci che sembrano agire in modo più efficace nella prevenzione di una rifrattura “sono i farmaci anabolizzanti come la teriparatide o il romosozumab”, ha proseguito l’esperto.
 
Ma facciamo un passo indietro.“L’osso viene continuamente rimodulato: abbiamo due distinti meccanismi, uno di modellamento osseo in cui la formazione dell’osso inizia direttamente dagli osteoblasti su superfici quiescenti e poi abbiamo un rimodellamento osseo che inizia nel momento in cui l’osso comincia ad essere distrutto dagli osteoclasti”, ha spiegato Caputi. Questo meccanismo, che si ripete nel tempo, può subire modificazioni con il passare del tempo. La premessa è doverosa per inquadrare meglio l’argomento. Negli anni la ricerca scientifica è infatti riuscita ad intervenire, grazie a farmaci specifici, su questo meccanismo. Per molto tempo la cura dell’osteoporosi si è basata su una classe di farmaci cosiddetta ad antiriassorbimento, farmaci questi di prima linea che intervengono sugli osteoclasti e che riducono il rischio di fratture, ma che non intervengono sulla stimolazione degli osteoblasti e quindi sulla ricostruzione dell’osso. Con l’innovazione, grazie ai farmaci anabolici, siamo arrivati anche a questa nuovo approccio terapeutico. Il problema di questi ultimi è che “dopo aver eseguito una terapia con anabolici, sarà necessario un farmaco antiriassorbimento per evitare il declino della densità ossea”.
 
L’ultima frontiera dell’innovazione ci fa capire meglio quanto sia necessario un radicale cambiamento nel trattamento delle fratture da fragilità. “Nel processo di modellamento e rimodellamento dell’osso agisce anche la sclerostina, una glicoproteina prodotta dagli osteociti, la cui attività è quella di inibire l’attività degli osteoblasti. Bene, inibire con un anticorpo monoclonale la sclerostina porta naturalmente ad un aumento di formazione dell’osso”. Appare evidente quindi che “nei pazienti con rischio molto elevato (di rifrattura ndr), la terapia con farmaci ad attività anabolica o bone builder deve essere considerata di prima linea”, ha precisato Caputi. “Studi di comparazione tra farmaci anabolici/bone builder e anti-riassorbitivi suggeriscono inoltre di iniziare subito la terapia anabolicain questi pazienti ad alto rischio. Non solo, se confrontiamo i farmaci anabolizzanti con l’anticorpo anti-sclerostina, notiamo che quest’ultimo agisce molto prima ed in maniera molto più rapida con conseguente beneficio per i pazienti”.
 
Prevenire le rifratture è la priorità per Stefano Gonnelli.“Avere una frattura aumenta in modo sostanziale il rischio di rifrattura quindi una donna con frattura vertebrale ha un rischio aumentato di 5 volte di avere una nuova frattura vertebrale”, ha detto l’esperto. “Nel periodo successivo alla frattura c’è il rischio di averne altre”, ha aggiunto precisando anche il fatto che questo è un punto importante su cui soffermarsi perché è da qui che si può cambiare paradigma. Le fratture cosiddette meno gravi non devono essere sottovalutate, ha spiegato “perché rappresentano proprio un campanello d’allarme che ci avvisa che la patologia osteoporotica sta diventando importante”. Come intervenire dunque? La risposta è nell’andare a fare una netta distinzione tra fratture da trauma e fratture da fragilità e nell’agire tempestivamente con le terapie più appropriate.
 
“Oggi abbiamo farmaci che prevengono le fratture fino al 70%”, ha ricordato Luisa Brandi. “I classici farmaci antiriassorbitivi utilizzano una finestra terapeutica, perché riducono il riassorbimento e solo successivamente riducono la formazione rispettando quello che noi chiamiamo rimodellamento osseo”, ha proseguito ricordando che è in questo modo che si riduce l’evento di frattura da fragilità.
 
Volendo fare una panoramica delle terapie a disposizione oggi per il trattamento dell’osteoporosi “abbiamo una categoria di farmaci antiriassorbitivi che vanno dagli aminobifosfonati alla terapia ormonale sostitutiva, al raloxifene, che è un farmaco SERM, fino ad arrivare alla teriparatide che è un farmaco anabolico, e al denosumab. Poi abbiamo  un nuovo farmaco approvato dall’EMA” e per il quale la commissione scientifica di Aifa ha riconosciuto, in base agli studi clinici effettuati, la capacità di prevenire le fratture. “Quello che non  stiamo facendo bene è utilizzare questi  farmaci in maniera intelligente”, ha precisato Brandi, in quanto dovrebbero essere usati in una certa sequenza. “Oggi noi sappiamo chiaramente che la sequenza, sia dal punto di vista delle conoscenze della biologia dell'osso, sia dai dati che sono stati pubblicati, dovrebbe vedere l'anabolico seguito dall'antiriassorbitivo. Questo perché l'anabolico aumenta la formazione dell'osso, ma aumenta anche il riassorbimento”. Proprio qui si inserisce romosozumab, farmaco per il quale è stato coniato il termine di bone builder, andando quindi oltre la logica dell’anabolico in senso stretto. Come visto, questo medicinale agisce sulla sclerostina che inibisce la formazione e aumenta il riassorbimento dell’osso: “Bloccando la proteina che inibisce la formazione e stimola riassorbimento avremo più formazione e meno riassorbimento”. Ciò che è importante sottolineare è che “l'effetto che noi abbiamo è un effetto significativo a livello di densità minerale ossea. Siccome la densità minerale ossea correla in maniera diretta con la riduzione del rischio di frattura, se io ottengo a un anno un aumento della densità minerale ossea che è comparabile a quello che ottengo dopo quasi cinque anni con il denosumab, questo ha un'importanza per i pazienti che hanno un urgente bisogno di avere un effetto antifratturativo immediato”. Certo “i costi immediati per questo farmaco innovativo ci peseranno e dovremo controllarli”, ha concluso l’esperta.
 
E proprio i costi sono ovviamente il rovescio della medaglia.In ottica di carico economico “l’impatto maggiore è dato dalle fratture”, ha rimarcato Paolo Cortesi. Queste comportano dei costi “sia nel breve periodo, per la gestione della frattura stessa, sia nel lungo periodo per la gestione delle conseguenze. Naturalmente ci sono differenze a seconda del sito di frattura, con la frattura all’anca che rappresenta una delle sedi più gravi perché quasi sempre comporta ricovero”, ha proseguito l’esperto. L’ospedalizzazione è l’aspetto principale legato ai costi diretti a carico del Servizio sanitario nazionale. “Rispetto ad altri paesi europei, in Italia la durata media di ospedalizzazione è molto alta, attestandosi sui 19 giorni, con un costo medio per le fratture d’anca di circa 21 mila euro per paziente. Per quanto riguarda i costi associati alla frattura – ha specificato - in Italia parliamo di circa 9 miliardi e mezzo all’anno. Questi costi, facendo una stima, potrebbero arrivare a 12 miliardi nel 2030”. A questi costi si aggiungono quelli legati alla perdita di produttività dei soggetti con osteoporosi. Nonostante la maggior parte delle fratture da fragilità si verifichi in pazienti anziani, quando ciò avviene in età lavorativa, in Italia, si stima “che si perdano circa 95 giorni lavorativi per mille individui”. A questo si legano anche i costi riguardanti l’assistenza del paziente da parte di famigliari e caregiver.
 
Migliorare la cura dell'osteoporosi puntando sulla prevenzione delle fratture e quindi ridurre i costi a queste associati sono una sfida complessa per i servizi sanitari, ma è anche una di quelle sfide che passa necessariamente dall’innovazione terapeutica. “Da uno studio svedese condotto su una sequenza di trattamenti basati sull’anticorpo monoclonale romosozumab”, ha spiegato Cortesi, “si evince una riduzione dei costi legati alle morbidità e alle ospedalizzazioni, un aumento di investimenti in termini di spesa farmaceutica a fronte però di un aumento di QALY, cioè anni di vita aggiustati in base alla qualità, e un aumento di aspettativa di vita. Sono fondamentali quindi approcci atti a prevenire le fratture per diminuire questo carico gestionale di risorse”.
 
Serve dunque uncambio di paradigma anche a livello organizzativo dall’alto. A ravvisare però qualche perplessità sulle effettiva possibilità di un cambiamento vero è Fulvio Moirano. “C’è un problema di comprensione tra i vari operatori che si occupano di questi temi, dal ministero della Salute e dalle Regioni, da una parte, e dal ministero dell’Economia dall’altra”. Da sempre i decisori hanno posto la loro attenzione sul problema dei costi e della spesa ma con l’arrivo dei 15,6 miliardi previsti per la Missione salute dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza sembra che “tutto il sistema sanitario pensi che il tema della compatibilità economica non ci sia più”, ha precisato Moirano. “A mio parere, invece, c’è il rischio che ci sia anche di più nelle fasi successive se non saremo in grado di utilizzare questi finanziamenti. Se metteremo in campo iniziative prive della compatibilità economica che pensiamo, ci troveremo solo costi aggiuntivi senza avere più il finanziamento”. Una occasione questa più unica che rara che sarebbe grave non saper cogliere.
 
Ma perché parliamo di problema di governance.Come fa notare Moirano, la pandemia ha messo in evidenza un tema importante: la deroga delle norme e delle leggi preesistenti. “Lo stato ha dovuto derogare sia in termini di assunzioni sia in termini di acquisizioni di beni e servizi, prendendo atto quindi che le procedure che avevamo non erano efficaci. C’è quindi da fare un ripensamento di tutte le procedure sia per l’introduzione dell’innovazione sia per la gestione della quotidianità”, ha precisato ancora l’esperto. “Serve ora mettere in pratica ciò di cui si parla da anni”, cioè rendere concreti gli interventi sul territorio, “per esempio rivedendo il DM 70 per rafforzare le cure primarie”. Per fare questo c’è bisogno di  “riempire di contenuto le case di comunità, previste nel PNRR, per fare della prevenzione primaria e secondaria sul territorio. Stiamo parlando di 8 milioni di pazienti cronici, stiamo parlando di una patologia cronica che avrebbe possibilità di prevenzione”.
 
La via da percorrere delineata da Moirano sarebbe quella di eliminare totalmente tutte le attività non necessarie all’interno dell’ospedale per poter recuperare i fondi da investire poi nel territorio con particolare attenzione alla medicina generale. “Noi avremo 15 miliardi: dobbiamo usarli anche  per i farmaci però deve essere coerentemente rivista l'organizzazione e ciò che è inefficiente”.
 
Cosa succede in Regione Toscana? “Dagli ultimi dati, sappiamo che circa 5.000 donne l’anno hanno una frattura del femore, mentre 200 circa hanno una frattura vertebrale”, ha ricordato Stefano Gonnelli. Come dicevamo prima però, se però per le fratture femorali si può tenere traccia, perché il soggetto viene sempre ricoverato, per le fratture vertebrali non è possibile perché sono spesso asintomatiche, e le stime potrebbero essere quindi diverse. “Il medico deve quindi andare a cercarle per esempio nei reparti di medicina interna tra i pazienti con bronchite cronica, oppure nelle donne con tumore della mammella, oppure ancora nei soggetti sottoposti a terapia cortisonica”.
 
Sul trattamento dei pazienti con frattura, la Regione Toscana registra dati non positivi: “sia dopo una frattura vertebrale che dopo una frattura femorale, dopo 30-90 giorni, solo una piccola parte di questi soggetti riceve un trattamento e pochissimi ricevono uno dei trattamenti più forti attualmente disponibili, denosumab e teriparatide, che sono quelli che hanno un effetto antifratturativo e di protezione più alto”, ha proseguito Gonnelli. Ciò è confermato anche dai dati OsMed di fine luglio 2021 dai quali si evince “che il consumo di farmaci per l’osteoporosi sta calando”. Cosa fare dunque? La soluzione non è semplice perché l’osteoporosi è una patologia che coinvolge più specialisti e che presenta difformità di gestione. Inoltre “non ha un riconoscimento come malattia cronica”, ed è estremamente difficile diversificare una frattura da fragilità da una frattura da trauma, cosa questa che permetterebbe invece di intervenire in modo tempestivo sull’osteoporosi. I modelli però ci sono: “percorsi ortogeriatrici, Bone Fracture Unit, Fracture Liason Service e PDTA ospedale-territorio. Noi in Toscana non abbiamo dei veri e propri reparti di geriatria e, per quanto riguarda la mia realtà, siamo più orientati verso le Fracture Liason Service”.
 
Il vero problema però è che “quando arriviamo alla frattura di femore è già troppo tardi”, ha sottolineato Gonnelli. Una via per risolvere questo problema, però, è stata trovata grazie all’informatizzazione. Come spiegato da Gonnelli, il medico di pronto soccorso può segnalare nella cartella elettronica del paziente una frattura da fragilità con un simbolo distintivo. “Questa è una modalità pratica per indirizzare alle bone unit tutti i pazienti che il medico di pronto soccorso ritiene essere affetti da fratture da fragilità”. La gestione di queste fratture deve basarsi su un modello regionale. Serve quindi avere “un codice identificativo specifico per fratture da fragilità e risorse per definire dei percorsi (ospedale-territorio ndr) e in questo senso le Case della Salute potrebbero essere un elemento chiave”. Inoltre, in Regione Toscana, prima della pandemia, è stato avviato un dialogo per la creazione di un PDTA che comprendesse proprio un percorso ospedale-territorio, ma l’emergenza Covid ha rallentato i lavori. “Attualmente stiamo riprendendo e credo che questa modalità di approccio possa essere un punto di riferimento anche per altre realtà regionali”.
 
Per quanto riguarda poi l’introduzione di un nuovo farmaco, ha spiegato Leonardo Gianluca Lacerenza, in Regione Toscana “la gara è gestita da un Rup e da amministrativi di Estar. Il Rup è affiancato da un collegio tecnico. In questo collegio tecnico ci sono i farmacisti selezionati nelle varie aziende sanitarie. Loro predispongono i nuovi lotti da inserire nello SDA, in seguito anche a segnalazioni ottenute dal portale RDA”. Questo è “un portale telematico di comunicazione tra le aziende sanitarie Estar e la regione” che consente di tenere traccia delle varie attività svolte dagli ospedali. “In questo portale noi inseriamo farmaci per la delibera regionale 457/2019”, che viene attuata, precisa sempre Lacerenza, nel caso in cui un medico voglia prescrivere un farmaco che non è disponibile in nessuna azienda sanitaria. Inoltre, “dal primo settembre 2021 in Regione Toscana stiamo utilizzando i nuovi piani terapeutici telematici che hanno come obiettivo anche quello di ridurre le prescrizioni cartacee. Quindi il medico profilato all'interno del sistema prescrive questo genere di farmaci”, ha concluso Lacerenza.
 
“Da un punto di vista di distribuzione”, ha aggiunto Fabiola Del Santo, “nella Regione Toscana possiamo intervenire in tre grandi possibilità distributive: la distribuzione diretta, la distribuzione per conto e la convenzionata. Tutte e tre sono monitorabili. Il monitoraggio fa sì che ci sia, non solo appropriatezza prescrittiva, ma anche una governance di tutte le risorse impiegate per questo tipo di disturbo”, ha precisato. “Non è soltanto importante andare a curare precocemente ma anche essere sicuri che i pazienti seguano l'aderenza al trattamento”. In quest’ottica una valutazione a lungo termine è necessaria. La valutazione dei costi a lungo termine, quindi anche costi indiretti, cioè giorni di lavoro persi, ospedalizzazioni, problemi che si possono ripercuotere poi sulla normale condotta di vita di questi pazienti, dovrebbe essere messa all'interno di una valutazione complessiva della gestione del paziente e della popolazione”. L’ideale sarebbe “andare a valutarli quando ancora non si sono verificate fratture e quindi andare a fare uno screening precoce e una valutazione di quelli che sono i rischi per ciascun paziente”.
 
Serve però fare di più, e il focus devono essere il territorio e la medicina di base.“Ho sempre ritenuto molto strano che nel nostro Paese, per esempio, le prescrizioni o almeno le riprescrizioni di farmaci prescritti da un centro specialistico non potessero essere fatte dai medici di medicina generale”, ha detto ancora Maria Luisa Brandi. “È chiaro che il  medico di medicina generale deve essere coinvolto diversamente nella gestione di questo problema”. Questo tema è strettamente legato alcapitolo che riguarda la formazione e l’informazione. “Io sono sicura che quest'anno ai congressi nazionali nessuno della medicina generale parlerà di romosozumab. Questo non significa che siccome non lo posso prescrivere, non lo devono conoscere”. Per Brandi quindi è necessario includere il medico di medicina generale in un progetto di formazione ed educazione all’innovazione per garantire al paziente l’accesso alle cure più appropriate.
 
Per fare di più “dobbiamo  recuperare ciò che è stato perso nel 2020”, ha però spiegato Fabio Lena, concordando anche sulla necessità di intervento sul territorio. “È importante un rapporto ospedale-territorio che coordini questa attività, che inserisca i trattamenti più avanzati, ed è importante che ci sia una medicina generale che stimoli continuamente l'utilizzo del farmaco quando ne è diretto prescrittore, o l'attenzione a seguire quelle terapie che non sono direttamente nella prescrizione del medico di medicina generale”, ha concluso.
 
Marzia Caposio

23 dicembre 2021
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