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Alzheimer. Gli estrogeni prevengono dalla demenza. Lo studio dall’Iss


In caso di pericolo il neurone si difende proprio con gli estrogeni: questa la scoperta del team italiano, in collaborazione con i colleghi statunitensi, pubblicata su PLoS One. Lo studio potrebbe aprire la strada a nuovi approcci terapeutici contro Alzheimer e altri tipi di demenza e di malattie neurodegenerative.

01 AGO - Cosa c’entrano gli estrogeni con l’Alzheimer? A quanto pare molto: gli ormoni sessuali steroidei conosciuti soprattutto per il loro ruolo nella regolazione dello sviluppo e delle funzioni del sistema riproduttivo, influenze anche l’attività dei neuroni, svolgendo perciò un ruolo significativo nell’insorgenza e nel decorso di malattie neurodegenerative e demenze. A dirlo uno studio appena pubblicato su PLoS One, condotto da ricercatori dell’Istituto Superiore di Sanità in collaborazione con ricercatori americani.
 
Non a caso, dicono gli esperti, dopo la menopausa l’incidenza del morbo di Alzheimer aumenta drasticamente nelle donne: probabilmente proprio per il diminuito effetto protettivo (chiamato “effetto ombrello”) svolto dagli estrogeni.
Per giungere alla conclusione che livelli di estrogeni e demenza siano collegati, gli scienziati hanno osservato proprio l’effetto dell’ormone sui neuroni. “Abbiamo monitorato i neuroni posti in un ambiente stressante, a mimare una condizione di invecchiamento e degenerazione”, ha spiegato Walter Malorni, il ricercatore dell’ISS che ha coordinato lo studio. “In questo modo abbiamo scoperto che i neuroni stessi esprimono sulla loro superficie il recettore alfa degli estrogeni, normalmente espresso solo all’interno della cellula, nel nucleo”. Un recettore non di poco conto visto che è capace di inviare segnali all’interno della cellula, inibirne la morte e promuoverne la sopravvivenza. In altre parole, “è il neurone stesso che, in condizioni di pericolo, si difende “portando” il recettore degli estrogeni in superficie, dove può svolgere un’azione più pronta e rapida che non quando è nel nucleo della cellula”, ha aggiunto Elena Ortona, coautrice della ricerca.
Un esempio delle possibili implicazioni di questo studio è dunque rappresentato proprio dalla malattia di Alzheimer, una grave e tra le più diffuse patologie neurodegenerative. “Con questo studio – ha concluso Ortona - si aprono nuove prospettive per la messa a punto di approcci terapeutici volti ad indurre l’espressione del recettore alfa sulla superficie dei neuroni per sfruttarne al massimo l’effetto protettivo”.

01 agosto 2012
© Riproduzione riservata

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