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Iperattività infantile: la risposta è genetica?


Uno studio su The Lancet riapre il dibattito sull’ADHD, il disturbo da deficit di attenzione. I ricercatori dell’Università di Cardiff avrebbero infatti rilevato differenze nel cervello di bambini affetti da ADHD, rispetto a un campione di bambini sani, dovute a segmenti di Dna duplicati o mancanti. I dati raccolti mettono dunque in dubbio che la malattia possa essere solo un semplice “costrutto sociale”.

14 OTT - L’acrononimo ADHD (Attention Deficit Hyperactivity Disorder ovvero Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività) indica uno dei dei disturbi del comportamento più comune nei bambini. Stime recenti parlano di un’incidenza, fortemente variabile, a livello mondiale, del 5.3% della popolazione. Nel nostro Paese si tende a stimare la prevalenza di ADHD infantile intorno al 2-3% della popolazione.
Sul disturbo, sulla sua evoluzione, sui suoi sintomi e, soprattutto, sul suo trattamento farmacologico, si è scritto molto e molto si è dibattuto. Una notizia importante però arriva oggi dalle autorevoli pagine di The Lancet sulle quali hanno trovato posto i risultati di una ricerca condotta da un’équipe di ricercatori dell’Università di Cardiff: si tratta di un vasto studio clinico su 366 bambini e adolescenti affetti da ADHD di età compresa tra i 5 e i 17 anni, messi a confronto con i dati raccolti su 1047 bambini sani.
Stando a quanto emerso dallo studio, il disturbo sarebbe riconducibile a differenze riscontrabili nel cervello dei bambini affetti da ADHD. A determinare queste differenze sarebbero segmenti del Dna duplicati o mancanti. La sovrapposizione principale, secondo quanto riportato da Lancet, è stata identificata in una particolare regione sul cromosoma 16, già implicata nella schizofrenia e in altri disturbi psichiatrici.
I risultati hanno indotto i ricercatori a formulare alcune importanti conclusioni: da un lato, le evidenze raccolte indicano come la genetica, e nello specifico le mutazioni o duplicazioni cromosomiche (si tratta di “Estese e rare delezioni o duplicazioni di tratti cromosomici, conosciute come varianti in numero di copie (copy number variation, CNV)) debbano essere considerate ambiti prioritari nella ricerca sul disturbo e, quindi, oggetto di future investigazioni. Obiettivo dello studio era infatti quello di verificare se nei soggetti con ADHD fosse presente un aumento di CNV e se tale aumento fosse collocabile nelle stesse regioni cromosomiche già identificate nell’autismo e nella schizofrenia. Il confronto tra il genoma completo dei 366 bambini con ADHD e i 1047 soggetti di controllo, ha individuato 57 CNV nel gruppo ADHD e 78 nel gruppo di controllo, mostrando un significativo incremento di CNV nei soggetti con ADHD. Questi risultati sembrano dunque confermare un’origine genetica dell’ADHD e, di conseguenza, mettere in discussione la sostenibilità dell’ipotesi che il disturbo possa essere considerato un semplice “costrutto sociale”.
Un commento allo studio è venuto da Paolo Curatolo, Primario della Clinica di Neuropsichiatria infantile Dipartimento Neuroscienze, dell’Università di Roma Tor Vergata.
“I risultati di questo studio, pubblicati su una delle più autorevoli riviste di medicina” – ha affermato in una nota – “rappresentano un significativo avanzamento per la ricerca scientifica nell’ambito delle neuroscienze e offrono un’ulteriore conferma rispetto all’origine neurobiologica dell’ADHD, disturbo che in Italia si stima avere una prevalenza attorno al 2-3%.” Va detto però che la presenza di fattori correlati e non di natura genetica, capaci di concorrere a determinare l’insorgenza del disturbo, non può essere esclusa: “L’eziologia dell’ADHD è ampia e complessa – ha spiegato ancora Curatolo – se è vero che può esistere una predisposizione genetica a sviluppare il disturbo, e questo studio inglese come altra letteratura scientifica raccolta sul tema sembrano dimostrare, non va dimenticato che allo sviluppo dell’ADHD possono concorrere anche fattori di natura ambientale come, ad esempio, un’esposizione intrauterina ad alcool e nicotina o una nascita prematura)”.
L’ADHD rappresenta uno dei disturbi psichiatrici più comuni nei bambini: a caratterizzarlo sono alcuni sintomi quali un marcato livello di disattenzione e una serie di comportamenti che denotano iperattività e impulsività, più seri e frequenti di quanto venga tipicamente osservato in individui a un livello paragonabile di sviluppo. I bambini affetti da ADHD non riescono a controllare le loro risposte all’ambiente, sono disattenti, iperattivi e impulsivi, fino a compromettere la loro vita di relazione e scolastica. La diagnosi, lenta e complessa, deve rispondere a criteri condivisi dalla comunità scientifica internazionale, quali l’ICD-10 e il DSM IV e si basa prevalentemente sull’osservazione clinica del bambino, sull’integrazione di informazioni raccolte nei vari contesti di vita e sull’esecuzione di esami, necessari per la diagnosi differenziale.
“Completata la diagnosi” – aggiunge Curatolo – “il primo intervento consiste nel comunicare e spiegare alla famiglia cosa significa avere l’ADHD. È necessario comunicare anche con gli insegnanti per aiutarli a comprendere le difficoltà e i punti di forza, che spesso non sono pochi, del bambino ADHD”. “L’intervento terapeutico per un bambino ADHD” – conclude – “deve essere quindi accuratamente personalizzato. Prevede una terapia multimodale e cioè una combinazione di interventi medici, educativi, comportamentali e psicologici sul bambino e sui genitori (Parent Training), a cui può essere associata, nelle forme più importanti – e se ritenuto necessario – una terapia farmacologica”.

14 ottobre 2010
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