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Ictus. Studio-pilota del Campus Biomedico apre nuova via per recupero motorio


Nel giusto ‘mix’ tra stimolazione magnetica cerebrale e riabilitazione risiede il segreto per ottenere miglioramenti più evidenti e duraturi nel tempo, anche ad anni di distanza dall’icuts. Da novembre via a una nuova sperimentazione con cento pazienti.

29 OTT - Tornare a prendere in mano una pallina, girare una chiave o sfogliare le pagine di un libro anche ad anni di distanza da un ictus cerebrale. Fino ad oggi non era considerato possibile: i margini per il recupero funzionale di un arto menomato dagli effetti devastanti prodotti dall’ictus sul cervello, infatti, sembravano limitati ai primi sei mesi o, in qualche raro caso, a un anno dall’evento. Una ricerca del Campus Bio-Medico di Roma, invece, ha dimostrato che se si ‘spengono’ opportunamente le connessioni del cervello mal funzionanti e i neuroni della parte colpita risulteranno poi più pronti a ‘riapprendere’, con la riabilitazione, il modo per far muovere l’arto. Anche oltre i fatidici sei mesi dall’ictus. In pratica, è un po’ come quando si blocca il computer: per poterlo far funzionare di nuovo basta riavviare il sistema.
 
La notizia, nel giorno in cui si celebra la IX Giornata Mondiale contro l’Ictus Cerebrale, è frutto di uno studio-pilota dell’Unità Operativa di Neurologia dell’Università Campus Bio-Medico di Roma, diretta da Vincenzo Di Lazzaro. I risultati del trial, che ha coinvolto dodici pazienti con danni funzionali da ictus all’arto superiore, sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Neuroscience Letters. Il lavoro ha aperto il campo a una nuova e più ampia sperimentazione, ormai in partenza presso il Campus Bio-Medico, alla quale prenderanno parte cento soggetti volontari.
 
Secondo i ricercatori, il segreto per ottenere risultati significativi nella riabilitazione motoria ad anni di distanza dall’ictus sta nel modo in cui vengono combinate le sedute di fisioterapia e di stimolazione magnetica cerebrale. Quest’ultima è una metodica non invasiva con cui si possono produrre modifiche di lunga durata delle connessioni tra neuroni del cervello. Fino ad ora, era utilizzata in fase post-ictus per inibire la corteccia cerebrale sana e favorire l’attività di quella menomata, tentando così di ripristinare, almeno in parte, la funzionalità motoria dell’arto.
 
“Il nostro protocollo di studio – spiega Di Lazzaro – ha invertito i criteri dell’approccio classico. La stimolazione magneticanon ci è servita per aumentare l’attività sinaptica della corteccia lesa, ma per diminuirla. In tal modo, è come se avessimo preparato il terreno per le successive sedute di riabilitazione. Per recuperare il danno causato da un ictus, infatti, il cervello deve tornare ad apprendere come far muovere l’arto. I dati sperimentali ci hanno mostrato che, in questo percorso di recupero funzionale, riabilitazione e stimolazione magnetica ‘viaggiano’ sullo stesso binario, contendendosi lo ‘spazio’ che la parte di cervello colpita concede. Utilizzando la stimolazione magnetica per attenuare l’attività dell’emisfero leso, è come se avessimo ‘riavviato’ i neuroni malfunzionanti, rendendoli poi più pronti a rispondere alle terapie fisiatriche. Ciò ha prodotto effetti benefici maggiori e più duraturi nei pazienti”.
 
La terapia riabilitativa prevedeva esercizi mirati a stimolare le capacità motorie dell’arto superiore nell’esecuzione di compiti tipici della vita quotidiana: girare una chiave, stringere una maniglia, raccogliere o tenere in mano un oggetto. Prima della sperimentazione, sono state valutate le possibilità motorie di partenza di ciascun paziente, in modo da verificarne i miglioramenti ottenuti. I dodici candidati sono stati quindi divisi in due gruppi e ciascuno di loro è stato sottoposto a sedute fisioterapiche di un’ora e mezzo al giorno, per due settimane consecutive. Nel gruppo dei sei pazienti in cui alla fisioterapia era stato affiancato questo particolare tipo di stimolazione ‘inibitoria’sono stati registrati miglioramenti più sensibili, soprattutto nei riscontri con la scala di valutazione JTT (Jebsen-Taylor Test), uno dei tre metodi scientifici utilizzati per valutare i risultati nell’ambito della sperimentazione. Questi progressi sono rimasti tali anche tre mesi dopo la fine del trattamento.
 
“Quello pubblicato – chiarisce Di Lazzaro – è uno studio iniziale, durato un anno ed effettuato su un campione relativamente piccolo di pazienti. L’esito, però, è senz’altro promettente. Anche per questo, da novembre partiremo con un secondo protocollo su cento pazienti”.
 
Lo studio verrà condotto presso il nuovo Laboratorio di Neurofisiologia del Campus Bio-Medico di Roma, realizzato con il contributo della Fondazione ‘Alberto Sordi’. Si svolgerà in collaborazione con l’Unità Operativa di Medicina Fisica e Riabilitazione.
 
L’ictus nel nostro Paese è la principale causa d’invalidità in età adulta, la terza di morte (dopo ischemie cardiache e tumore) e l’origine del 10-12% di tutti i decessi per anno in Italia (fonte: Ministero della Salute). Quasi sempre lascia in eredità al soggetto colpito difficoltà motorie e cognitive. Finora, il progressivo e parziale miglioramento della disabilità, ottenuto tramite sedute fisioterapiche, era osservabile solo entro i primi mesi successivi all’evento. Un limite forte, soprattutto se si considerano i recenti dati pubblicati dalla rivista scientifica The Lancet, secondo cui l’incidenza della patologia è crescente e colpisce fasce d’età sempre più giovani (83mila casi nel mondo sotto i vent’anni). L’alleanza tra riabilitazione e stimolazione magnetica cerebrale sembra perciò aver aperto una nuova strada da percorrere per restituire una migliore qualità di vita anche a quei pazienti che, ad anni di distanza, portano ancora sulle loro spalle il pesante fardello di una forte invalidità motoria.
 
 

29 ottobre 2013
© Riproduzione riservata

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