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Il grande flop della ricerca italiana. Dal “bagnino” ai “samurai”


Quarant'anni di storia. Dalla fine della Montedison di Carlo Sama, "il bagnino" alle speranze dei "sette samurai" guidati da Gianni Bonadonna. Il nuovo libro di Daniela Minerva e Silvio Monfardini. “Non siamo tra quelli che demonizzano Big Pharma, ma bisogna cambiare passo e molto”.

29 OTT - Un libro bellissimo. Che si legge come un thriller o una spy story. Ma anche come una pochade dove si alternano figure di giganti e di gnomi della storia politica e industriale italiana. Un libro che racconta come il sogno di avere una nostra Big Pharma, attorno a ciò che era Farmitalia-Erbamont, sia sfumato per colpa di “una classe politica rapace, ignorante, retrograda e riottosa nei confronti della modernità, e da imprenditori con lo sguardo corto”, come scrivono nella prefazione al loro lavoro Daniela Minerva, storica firma de l’Espresso e Silvio Monfardini, uno dei protagonisti della ricerca oncologica italiana.
 
Ma il libro non è solo storia di ciò che non è stato. E’ anche presente e futuro, come leggiamo dalle parole di Umberto Veronesi intervistato negli ultimi capitoli del libro che ci dice come, nonostante tutto, siamo ancora protagonisti della ricerca biomedica mondiale. “Siamo protagonisti – dice Veronesi – ma facciamo poca ricer­ca, perché ci sono poche risorse. Tuttavia nell’indice pro-capite di produzione scientifica siamo nei primi posti nel mondo. La genetica la facciamo bene, gli ematologi italiani sono bravi, anche gli oncologi italiani sono bravi. Basterebbe finanziare più e meglio. Togliere la ricerca biomedica dalla gabbia che oggi rappresenta il servizio sanitario nazionale”.
 
Impossibile citare tutti i nomi dei protagonisti che trovano spazio nel libro. Verrebbe da dire che ci sono veramente tutti. Dai grandi e piccoli scienziati, agli industriali che ci hanno provato con o senza successo. Ai politici che hanno cercato di dare una mano o hanno “allungato” le mani. Ai manager e ai tecnici delle istituzioni che la vita della ricerca e del farmaco la regolano e l’amministrano.
 
Insomma veramente un libro da leggere per capire come è stato possibile “sprecare questa grande occasione”.
 
C.F.
 
 
La premessa al libro dei due autori
 
Cominciamo subito col dire chi è “il bagnino” e chi sono “i samurai”. Il bagnino è Carlo Sama, perché negli anni sessanta così lo chiamavano sulle spiagge di Romagna, dove il futuro amministratore delegato di Montedison, aitante ragioniere ra­vennate, dava il meglio di sé conquistando così la rampolla Ferruzzi, Alessandra. Un grande manager non lo è mai diven­tato, il bagnino, ed è una beffa della storia che sia toccato proprio a lui liquidare la grande azienda di Stato che aveva plasmato quarant’anni di storia italiana, e con ciò mettere in mani straniere, precisamente svedesi, Farmitalia-Erbamont, il gioiello della farmaceutica italiana, l’unico nucleo dal quale sarebbe potuta nascere una Big Pharma tutta nostra.
 
I samurai, invece, sono sette giovanotti (sei e una ragazza con gli occhiali) che hanno dato vita alla moderna oncologia medica negli anni sessanta di una Milano innamorata della scienza, votata al progresso e non ancora “da bere”. A chia­marli così, scherzosamente ma non tanto, è stato l’uomo che li ha raccolti attorno a sé: Gianni Bonadonna, un mostro sa­cro della medicina dei tumori diventato tale anche in virtù di un farmaco potentissimo, sviluppato proprio da Farmitalia, e portato negli ospedali di tutto il mondo grazie alle sperimen­tazioni dei samurai.
 
Due soggetti antitetici, il bagnino e i samurai, due culture e due visioni del mondo antitetiche, che però si sono trova­te a vivere insieme la grande occasione dell’Italia: partecipare alla partita miliardaria della guerra mondiale al cancro. La partita è stata persa, e anche l’Italia ha perso. In questo libro racconteremo come e perché il nostro paese, sprecando soldi e dilapidando talenti, è riuscito a farsi sfuggire il treno della modernità. Lo faremo partendo proprio dall’occasione offerta dall’oncologia, che ha visto da un lato il sistema paese, rappre­sentato dal bagnino, rinunciare al grande gioco della ricerca farmaceutica con una certa inconsapevole leggerezza, e dall’al­tro la comunità medico-scientifica, rappresentata dai samurai, che è riuscita nonostante tutto a fare molto, a essere credibile e autorevole e conquistarsi un posto nel mondo, ma che, con l’andare del tempo e i conseguenti mutamenti nei profili della ricerca, oggi arranca.
 
È la storia di un miracolo sfumato, bruciato da una classe politica rapace, ignorante, retrograda e riottosa nei confronti della modernità, e da imprenditori con lo sguardo corto, che hanno preferito sperperare un patrimonio in insipienza, man­canza di strategie e mazzette ai politici, invece di raccogliere le sfide della grande industria scientifica in grado di fare ricerca biomedica. Le premesse affinché anche il nostro paese potesse giocare la partita del business farmaceutico c’erano tutte: la storia di questo settore testimonia il grande fermento che, a cavallo tra gli anni cinquanta e sessanta, ha portato alla nasci­ta e allo sviluppo di diverse industrie promettenti e all’orien­tarsi di un discorso pubblico che guardava alla ricerca scienti­fica come motore del progresso. Poi, tutto è svanito nel nulla.
 
Questo libro vuole capire perché e indagare se, nonostante le insipienze di politici e imprenditori, sia rimasta un’ossatura sana sulla quale ricostruire.
Siamo convinti che Montedison sia stata l’unica vera oc­casione di aggregare una multinazionale italiana del farmaco. Tralasciando come abbiano poi impiegato i loro discutibili ta­lenti, e lo vedremo, le altre industrie farmaceutiche non ave­vano le caratteristiche per farsi “Big”: troppo piccole e chiuse attorno alla famiglia padrona, troppo lontane dalla realtà in­dustriale della chimica che, volente o nolente, è in Europa la madre matrigna della farmaceutica, troppo prigioniere, infine, di un sistema del credito che le ha paralizzate nell’incapacità di giocare in Borsa le proprie chance. Montedison, però, è sta­ta anche la palestra nella quale la politica italiana ha dato il peggio di sé, dove si è mostrata l’incapacità del nostro sistema paese di credere in un’impresa science driven.
 
Diciamolo subito e senza pudori, noi non siamo tra quelli che pensano che l’industria farmaceutica sia il diavolo, anzi: riteniamo che sia un importante motore di sviluppo, e perciò sarebbe auspicabile avere imprese di questo tipo – italiane o straniere – che investono in ricerca nel nostro paese. Pensia­mo anche, però, che sia necessario cambiare passo, e mol­to. La corruzione, le relazioni opache, i politici che si sono sottratti e si sottraggono alla giustizia nascondendosi dietro l’immunità, gli industriali mascalzoni che hanno gonfiato i prezzi a suon di mazzette sono un’ombra che pesa troppo e che alimenta la sfiducia sorda dell’opinione pubblica. Se non saranno prese misure draconiane per dare un taglio deciso a questo andazzo orrendo, ci andranno di mezzo non solo i malati, ma anche il paese.
 
Dobbiamo riconoscere che il combinato disposto di un at­teggiamento ostile dell’opinione pubblica, alimentato da una retorica cattocomunista che stigmatizza “chi fa i soldi sulle malattie”, e della rapacità della politica, che ha ritenuto op­portuno (oltre che eticamente plausibile) lucrare a danno di chi lucra sui malanni altrui, è stato il combustibile di qua­rant’anni di errori che ci hanno progressivamente lasciato fuo­ri da un settore vitale, per la nostra salute e i nostri affari. Il caso dell’oncologia è la punta di diamante di questa catena di disastri, perché l’oncologia è la punta di diamante della ricerca biomedica moderna.

 
Sconfiggere il cancro con nuovi farmaci è la scommessa che ispira scienziati di prim’ordine, alimentando migliaia di progetti straordinari e muovendo milioni di dollari. Noi ne siamo fuori, siamo solo un mercato acritico: compriamo dal­le multinazionali farmaci per sviluppare ognuno dei quali è stato speso un miliardo e mezzo di dollari; non abbiamo la possibilità di generare ricerca autonoma e subiamo, quindi, le scelte di Big Pharma, il cui fatturato non conosce crisi ed è tale da permettere massicci investimenti nella ricerca. Questo ci fa male, anche alla salute, e lo vedremo nel dettaglio.
 
Eppure poteva andare diversamente. Prima di cominciare a spiegare che cosa è andato storto, vogliamo dire chiaramente che non ci piace il paese che vediamo, tutto intento a disegnare scarpe, modellare divani o imbottigliare Cartizze. Baloccarsi con l’economia delle tre F (fashion, furniture e food) che oggi fa grande l’Italia nel mondo è un’illusione pericolosa della quale già si vedono i rovinosi effetti. Sentiamo ancora l’eco delle parole ottuse di quel commercialista di Sondrio che ha guidato l’economia italiana, per un tempo che ci è parso infini­to, nella convinzione che la «cultura non si mangia» e che non ci si può fare «un panino con la Divina Commedia».
 
A gente come l’allora ministro Giulio Tremonti piace un paese ignorante intento a fare soldi cucendo tomaie e limando rondelle, ma anche chi lo ha preceduto e chi lo ha seguito non ha mai pensato che, invece, la cultura è l’anima del progres­so industriale. Anche se lo ha pensato, non ha mai smesso di togliere ossigeno alla ricerca, proprio mentre il paese guida dell’Europa, la Germania, tagliando, nel suo bilancio di pre­visione dello Stato per il 2013, ottanta miliardi di euro, ha aumentato quelli investiti in ricerca e università di tredici.
In Italia la scienza è un lusso astruso; a nessuno viene in mente che, invece, è l’unico pilastro contro il declino. Così, quando abbiamo visto la bella faccia di Fabiola Giannotti sul­la copertina di “Time Magazine”, una donna dell’anno 2012, ci si è stretto il cuore.
 
È vero, la faccenda del bosone di Higgs ha riempito i giornali anche italiani, e a Fabiola qualche in­tervista gliel’hanno fatta, ma da qui ad essere diventata una celebrità ce ne corre. Gli scienziati in Italia non se li fila nessu­no: magari pensiamo anche che facciano delle cose importanti, ma fatichiamo a capire perché queste cose sono importanti, il che significa che fatichiamo a riconoscerli come la colonna portante dello sviluppo e della modernità. Vale persino per il grande padre Galileo: per i più è un signore con la barba bianca che si mise contro la Chiesa, ma le ragioni di ciò la maggior parte degli italiani le ignora. La stessa sorte tocca a Fermi, Rubbia, Montalcini o all’uomo delle fortune Montedi­son, Giulio Natta: tutti Nobel. Già, ma perché?
 
Si fa presto a dare la colpa a don Benedetto Croce, alla scuola che nasce e resta gentiliana, alla cultura spiritualista che marchia scienza e tecnologia come frutti del demonio, o a quella post-moderna che le snobba come subculture borghesi al servizio dello sfruttamento capitalista, illusorie e ingenue come illusoria e ingenua è l’idea di progresso. Di certo è que­sto il terreno di coltura dove nasce e ingrassa il disinteres­se della politica per la ricerca scientifica, ma, al fondo, c’è la natura stessa dell’Italia: investiamo meno di ogni paese indu­strializzato nella ricerca, che sola può essere oggi il generatore dell’industria (l’1,2 per cento del Pil, la metà di Germania e Stati Uniti, un terzo di Giappone e Corea), abbiamo il numero di laureati tra i più bassi dei paesi OCSE (il trentaquattresi­mo posto su trentasei), e paghiamo i nostri ricercatori cifre ridicole rispetto a quanto li pagano i paesi che contano (un post-doc in Italia, nel momento della sua massima creatività, non guadagna più di milleduecento euro lordi, quando li gua­dagna). Il fatto è che l’Italia considera marginale ed elitaria la scienza; siamo il paese dei bagnini: ci piacciono i samurai ma non capiamo cosa fanno, e per questo li mettiamo ai margini dei nostri interessi.
 
Questo è l’errore storico dell’Italia, quello che l’ha trasci­nata in un abisso dal quale, come ci dicono i grandi econo­misti, chissà mai se si solleverà. Perché è evidente che non c’è sviluppo economico senza ricerca scientifica: come dimostra il passato, tutte le innovazioni sociali sono state guidate dalle ri­voluzioni scientifiche e, come dimostra il presente, le economie trainanti lo sono in virtù del loro motore scientifico-tecnologi­co. Questo motore, va detto, ha sempre preso il volo sulle ali di una ricca dotazione pubblica. È dal manifesto Science, the Endless Frontier consegnato da Vannevar Bush al presidente Roosevelt alla fine della seconda guerra mondiale che nasce il mondo contemporaneo, dal mandato stringente a supporta­re senza sosta il lavoro degli scienziati: a spendere, spendere, spendere, seguito con diligenza per decenni. Il nostro mondo prende forma con i grandi progetti (dalla conquista dello spa­zio di Kennedy alla guerra al cancro di Nixon alla rivoluzione green di Obama) che investono milioni di dollari nella ricerca scientifica creativa. Non sarà mica un caso se la Cina investe già l’1,6 per cento del suo Pil e mette ogni anno il 25 per cento in più di soldi nella scienza. L’Italia non l’ha fatto e non lo fa. Così si balocca nell’economia residuale delle tre F, gioio­samente brindando al suo declino. Con un ottimo Cartizze, però.

 
Daniela Minerva e Silvio Monfardini
 
Il libro:
Il Bagnino e il Samurai
La ricerca biomedica in Italia: un’occasione sprecata
Daniele Minerva e Silvio Monfardini
Prefazione di Ignazio Marino
 
Codice Edizioni
Pagine 293 – Euro16,90

29 ottobre 2013
© Riproduzione riservata

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