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Citomegalovirus in gravidanza. Gravi rischi per il feto. Ma il contagio si può prevenire e curare


La terapia, però, è poco conosciuta e alle gestanti viene spesso consigliato l’aborto. La denuncia arriva dall’Osservatorio Malattie Rare, che mette a disposizione un esperto online per rispondere a tutti i dubbi sui rischi e le terapie contro il citomegalovirus. Ecco il racconto di una mamma.

12 NOV - È un agente infettivo molto comune, tanto che il 60-80% degli adulti presenta anticorpi anti Citomegalovirus (CMV). I sintomi sono simili a quelli dell'influenza o della mononucleosi e nella maggior parte dei casi l'infezione non ha conseguenze rilevanti. Durante la gravidanza però contrarre questa infezione diventa estremamente rischioso: il virus potrebbe essere trasmesso al feto, che non è dotato delle armi immunitarie per combatterlo. In questo caso si parla di “citomegalovirus congenito”. Questa infezione può produrre danni di entità variabile al nascituro e riguardare il sistema nervoso centrale, con malformazioni visibili ecograficamente, oppure provocare ritardo mentale, sordità congenita o corioretinite (una patologia della retina che provoca cecità).

Il citomegalovirus, però, si può combattere. Sia prevenendolo, che assumendo adeguate terapie che abbattono notevolmente il pericolo di trasmissione del virus al feto. A sottolinearlo è l’Osservatorio Malattie Rare, che denuncia come, invece, quando si scopre l'infezione primaria in una donna in dolce attesa, sia nella maggior parte dei casi consigliata l'interruzione di gravidanza. “Senza nemmeno fare i test di approfondimento”, sottolinea Giovanni Nigro, Direttore della Clinica Pediatrica e della Scuola di Specializzazione in Pediatria dell’Università dell’Aquila.
Contro questa situazione, l’Osservatorio Malattie Rare e il prof. Nigro hanno deciso di mettersi a disposizione dei cittadini aprendo un servizio online per offrire informazioni e risposte alle donne sul citomegalovirus.

“La prima arma contro il CMV è sicuramente la prevenzione: il CMV si trasmette attraverso i fluidi corporei, quindi una corretta igiene (lavarsi le mani, evitare il contatto con le secrezioni orali, evitare i rapporti sessuali a rischio) può prevenire l'infezione. Si tratta però di un virus estremamente comune, tant'è che in gravidanza sarebbe bene eseguire il test di screening”, spiega l’Osservatorio. Il test consiste in un semplice esame del sangue, attraverso il quale vengono misurati gli anticorpi specifici, detti immunoglobuline. Una volta infettata, la donna produce gli anticorpi IgM e IgG rivolti contro il virus. Se alle analisi gli anticorpi IgM risultano positivi l'infezione è in atto (escludendo le false positività). Se gli anticorpi IgG sono negativi siamo in presenza di un'infezione primaria, la più pericolosa. Se anche le IgG sono positive, può trattarsi di un’infezione primaria recente o una riattivazione o reinfezione. Sarà quindi necessario eseguire il cosiddetto test di avidità (o avidity test) che permette di sapere se l’infezione si è avuta nei tre mesi precedenti o se è avvenuta anteriormente: se ci si è ammalate prima della gravidanza i rischi si abbassano all’1% circa. Se è confermata l’infezione primaria in gravidanza, è bene rivolgersi ad una struttura specializzata.

“Quando si scopre l'infezione primaria – spiega Giovanni Nigro - nella maggior parte dei casi viene consigliata l'interruzione di gravidanza, senza nemmeno fare i test di approfondimento. In alcuni casi non viene fatto nemmeno il 'test di avidità', questo vuol dire che in alcuni casi si consiglia di interrompere una gravidanza senza nemmeno essere sicuri al 100% che il nascituro abbia sviluppato l'infezione. Solo con l'amniocentesi si può poi essere sicuri che l'infezione fetale sia in corso, interrompere una gravidanza prima è solo un modo per aggirare il problema, anche perché il citomegalovirus congenito si può prevenire e, nel caso sia già stato trasmesso al feto, si possono limitare di molto o evitare i danni”.

Infatti una cura per questa infezione esiste. Consiste nella somministrazione di immunoglobuline specifiche, che abbattono notevolmente il pericolo di trasmissione del virus al feto nel caso in cui non abbia ancora contratto il virus, o lo aiutano a combattere la malattia.

“Cominciando le immunoglobuline già in periodo fetale e continuando il trattamento dopo la nascita, unitamente al trattamento antivirale standard, si possono ridurre al minimo i danni causati da virus, e bloccare il virus stesso. Se questa terapia non viene somministrata il virus rimane attivo, continuando a danneggiare il sistema nervoso del bambino”, spiega l’esperto.

Le immunoglobuline specifiche, spiega l’Osservatorio, “sono però ancora considerate una terapia sperimentale, malgrado le ormai numerose pubblicazioni internazionali, e di rado vengono proposte alla gestante. A volte alle donne con infezione primaria, nei casi in cui una terapia viene almeno offerta in ospedale, vengono somministrate le immunoglobuline non specifiche, meno costose di quelle specifiche ma meno efficaci. Purtroppo, oggi, chi volesse affrontare questa terapia per non incorrere nell’opportunità di un aborto deve pagarla nella maggior parte dei casi di tasca propria.”

Lo sa bene Giada Briziarelli Benetton, che ha contratto l’infezione alla sua terza gravidanza e si è sottoposta alla terapia a base di immunoglobuline specifiche a sue spese. “Per fortuna noi potevamo permettercelo – racconta - ma fin da quell’istante ci siamo resi conto di questa assurdità, ovvero dell’impossibilità, per chi non ha assicurazioni sanitarie o capacità economiche, di poter tentare di salvare la vita del proprio figlio. Mia figlia Isabella aveva contratto il virus e riportava segni evidenti quali un versamento addominale e gli organi addominali fegato e milza gonfi ed una piccola cisti al cervello, per cui, sottoponendomi ad immunoglobuline, mi hanno fatta arrivare alla trentaseiesima settimana per poi praticare un taglio cesareo al fine di togliere la bimba dal liquido amniotico infetto. Dopo la nascita le sono bastati pochi giorni per recuperare, perché aveva delle forti difese contro il virus che le erano state trasmesse con le immunoglobuline che in gravidanza mi erano state somministrate.”

Dopo questa esperienza Giada e suo marito Andrea hanno fondato l’Associazione AntiCito, per aiutare le famiglie ad affrontare questa malattia e ricordare che l’aborto non è sempre la soluzione: la terapia esiste, anche se poco conosciuta.

“Io, mio marito e mia figlia siamo stati, perciò, molto più fortunati di altri perché abbiamo avuto la possibilità di scoprire, tramite medici competenti, che esiste un modo per combattere questo maledetto virus riducendo in grande percentuale le sue capacità nocive. Abbiamo avuto, inoltre, la possibilità economica di usufruire di queste cure. Questo è il motivo che ci ha spinti a costituire questa Onlus: offrire la stessa opportunità a chi avrà la sfortuna di dover affrontare la medesima odissea, divulgando le conoscenze scientifiche in materia, l’esistenza della possibilità di aiutarsi con cure specifiche e raccogliendo i fondi necessari a sostenere le famiglie che non possono permettersi tali cure”, spiega ancora Giada. L’obiettivo è promuovere la prevenzione e rendere obbligatorio il test di screening in gravidanza, perché il CMV venga scoperto e trattato immediatamente.
 

12 novembre 2013
© Riproduzione riservata

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