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Distrofia muscolare: il puzzle è completo. Sono le staminali il tassello mancante


Uno studio pubblicato su Cell rivela che le ridotte riserve di cellule staminali muscolari nell’uomo rendono la malattia più aggressiva rispetto ai modelli animali come i topi.

10 DIC - “Non si tratta soltanto di una malattia dovuta a una carenza di distrofina. Si tratta anche di una malattia delle cellule staminali”.
Così Helen Blau della Stanford University School of Medicine ha sintetizzato i risultati di uno studio pubblicato su Cell e da cui emerge un nuovo profilo della distrofia muscolare di Duchenne.
Finora, si era pensato che la distrofia fosse dovuta “soltanto” a una singola alterazione di un gene localizzato sul cromosoma X che contiene le informazioni per la produzione di una proteina: la distrofina. È questa mutazione che causa la progressiva morte del tessuto muscolare caratteristica della malattia.
Tuttavia qualcosa non tornava in questo quadro: se si creano in laboratori topi con la stessa mutazione del gene della distrofina presente nell’uomo, i roditori presentano una versione della malattia molto più attenuata. “È stato un mistero negli ultimi 25 anni: che i topi con lo stesso difetto genetico presentassero sintomi minimi o addirittura nessun sintomo”, ha commentato Blau. “Di conseguenza, finora, non disponevamo di un modello murino in cui studiare la fisiopatologia della malattia o potenziali trattamenti”. Soprattutto, questo elemento lasciava un tassello mancante nella comprensione della malattia che, ora, sembra che i ricercatori di Stanford siano riusciti a trovare.
 
Il potere del topo
Secondo il gruppo, la ragione per cui la malattia si presenta in maniera così diversa nell’uomo e nel topo risiede nella più alta capacità di quest’ultimo di riparare il tessuto muscolare danneggiato a causa dell’assenza di distrofina.
In particolare, è la maggiore disponibilità di cellule staminali muscolari la differenza sostanziale. E questa riserva è connessa alla maggiore lunghezza dei telomeri nei topi. I telomeri sono dei veri e propri lacci molecolari posti alle estremità dei cromosomi e che li proteggono da danneggiamenti. La loro lunghezza diminuisce ogni volta che la cellula si divide. Quando la loro lunghezza diventa insufficiente la cellula va incontro a morte. Ne consegue che quanto più sono lunghi i telomeri, tanto più la cellula avrà la possibilità di generare cellule figlie.
Dall’analisi dei ricercatori è emerso che i telomeri dei topi sono più lunghi di quelli umani, perciò i roditori presentano una maggiore riserva di staminali che possono riparare i muscoli danneggiati. Per questo la malattia è quasi asintomatica nei topi anche se si induce la mutazione nel gene della distrofina.
A riprova di ciò, il gruppo ha creato un modello di topo con telomeri più corti: in esso, la malattia presenta tutte le sue caratteristiche. “Quando si esaurisce la riserva di cellule staminali emergono i sintomi”, ha spiegato uno degli autori dello studio, Jason Pomerantz. “Nei topi si osserva un ciclo in cui al danno segue la riparazione, finché la capacità di riparare non si esaurisce. Nei topi [con telomeri più corti] però questa capacità si esaurisce prima”. Il team ha inotre realizzato anche una controprova: trapiantando in questo modello murino cellule staminali muscolari sane, è emersa la capacità di riparazione del tessuto muscolare e l’alleviamento dei sintomi.
 
Nuove prospettive terapeutiche
“Questo nuovo modello murino cambia il modo in cui noi pensavamo la fisiopatologia della malattia”, ha commentato Foteini Mourkioti, coautore studio. “Abbiamo finalmente capito che le cellule staminali muscolari sono una componente essenziale della malattia e possiamo pensare a modi più precisi per trattare la distrofia di Duchenne”.
La correzione del gene codificante per la distrofina resta l’obiettivo primario della ricerca, ma non si potrà non tenere conto del ruolo delle staminali muscolari: in particolare, sottolinea la prima firmataria dello studio - un’italiana, Alessandra Sacco: “le strategie terapeutiche dovranno essere finalizzate a interventi precoci, possibilmente nel primo anno di vita del paziente. Queste hanno più probabilità di avere risultati positivi dal momento che possono agire prima che si sia raggiunto lo stadio finale del danneggiamento dei tessuti muscolari”.  
 
Antonino Michienzi

10 dicembre 2010
© Riproduzione riservata

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