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Congresso di epatologia/3. HCV: la diffusione in Europa e i ‘buchi’ dei programmi di screening

di Maria Rita Montebelli

L’Europa si trova a fare i conti con la carenza di programmi di screening mirati sulle popolazioni a rischio, che permetterebbero la diagnosi precoce e consentirebbero di arrestare la diffusione del virus. L’allarme lanciato all’International Liver Congress (EASL) a Vienna, dove sono state presentate anche le ultime linee guida sul trattamento dell'epatite C.

26 APR - Sono 130-150 milioni le persone con epatite cronica da HCV nel mondo e 15 milioni nella Regione Europea, cioè il 2% degli adulti; ma la prevalenza di questa condizione tra le persone che fanno uso di droghe endovena arriva al 98%.
 
Il virus dell’epatite C è stato isolato nel 1989 e i 25 anni dalla sua scoperta sono stati festeggiati con l’arrivo di trattamenti, in grado di eradicare l’infezione, che si contrae attraverso il contatto con sangue infetto. Non esiste al momento alcun vaccino, per cui l’unica forma di prevenzione consiste nell’evitare di esporsi al virus.
 
L’HCV può causare due tipi di infezione, acuta e cronica. Nella forma acuta, il sistema immunitario può eliminare il virus dal corpo, senza bisogno di ricorrere ad un trattamento, entro sei mesi dall’infezione. Il 15-45% delle persone che contrae l’epatite C elimina dunque l’infezione spontaneamente.
 
L’infezione cronica da HCV invece si verifica quando il corpo non riesce ad eliminare il virus, fatto che succede nel 55-85% delle persone che contraggono l’epatite C. Il 30% circa delle persone con epatite C cronica va incontro allo sviluppo di cirrosi e una parte di queste progredisce verso il carcinoma epatocellulare (HCC). Secondo l’OMS, l’epatite C causa  86 mila decessi l’anno nella sola Europa.
 
La buona notizia degli ultimissimi anni è che l’epatite cronica da HCV può oggi essere trattata con farmaci antivirali che bloccano la replicazione del virus all’interno del corpo, prevenendo così i danni al fegato. In alcuni casi, i nuovissimi trattamenti antivirali possono addirittura portare a guarigione il paziente, eradicando  completamente il virus dal suo organismo. Questi nuovi trattamenti, alcuni dei quali  già disponibili, con altri in arrivo, sono detti DAA (Directly acting Antiviral Agents).
 
“Negli ultimi tre anni – ricorda la professoressa Maurizia Rossana Brunetto, Direttore UO Epatologia -  Centro di Riferimento Regionale per la diagnosi e cura delle epatopatie croniche e del tumore di fegato dell’
Azienda Ospedaliero Universitaria Pisana - si sono resi disponibili  i nuovi farmaci ad azione antivirale diretta (DAA, farmaci che agiscono in momenti molto specifici del ciclo replicativo virale, bloccandolo). Al congresso dell’EASL vengono presentati sia i risultati degli studi di fase 2 e3 su nuove molecole in fase di sviluppo, che i primi dati ottenuti dai trattamenti condotti al di fuori degli studi clinici, cioè in un contesto real life, dei farmaci che sono stati utilizzati negli ultimi 12-18 mesi”.

A Vienna sono state presentate le nuove Linee guida dell'EASL circa l'utilizzo dei farmaci attualmente disponibili in Europa contro l’HCV (Peg-interferon, Ribavirina, Sofosbuvir, Simeprevir, Daclatasvir, Sofosbuvir+Ledipasvir, ABT-450/ritonavir, ombitasvir -ABT-267, dasabuvir -ABT-333).

In generale emerge che nessun DAA può essere utilizzato in monoterapia e che il numero e la tipologia di farmaci, la durata complessiva della terapia e la percentuale di successo terapeutico (SVR) dipendono dal genotipo virale infettante (e nel genotipo 1, anche dal sottotipo), dallo stadio della malattia epatica (presenza o meno di cirrosi), dal fatto che i pazienti siano già stati trattati e dalla risposta a precedenti trattamenti (in particolare nel caso di cirrosi).


“In considerazione dei costi elevati di questi nuovi farmaci – prosegue la professoressa Brunetto - l'accesso alla rimborsabilità da parte del SSN per le terapie senza interferon-free è garantito solo ai pazienti con malattia in stadio più avanzato, con severe manifestazioni extra-epatiche o in ambito trapiantologico.

In realtà, la cura dovrebbe essere iniziata il più presto possibile per garantire il massimo beneficio, in quanto  il trattamento tardivo, quando la malattia è già evoluta in cirrosi epatica riduce, ma non annulla alcune complicanze, tra cui il tumore di fegato. Quando la cirrosi è scompensata, pur ottenendo il controllo dell'infezione, in una percentuale elevata di casi, si sviluppano comunque alcune complicanze gravi (quali infezioni,  scompenso) e al momento non è dimostrato che l'intervento terapeutico migliori sostanzialmente la sopravvivenza.

Per tale ragione – conclude la professoressa Brunetto - è indispensabile costruire una approccio personalizzato al trattamento antivirale che preveda l'uso appropriato di tutte le risorse farmacologiche di cui disponiamo.”
 
 
Va anche ricordato che esistono diversi genotipi virali dell’HCV, e non tutti rispondono altrettanto bene al trattamento. In Italia predomina il genotipo 1b (quello 1a è più diffuso tra i tossicodipendenti), che rappresenta il 55-60% del totale e che risponde bene ai nuovi trattamenti. A seguire il genotipo 2 (20%), il 3 (10%), ‘importato’ da India, Nepal, Pakistan negli anni ’60 e che pone molti problemi perchè è tra i più resistenti al trattamento. La restante quota è rappresentata infine dal genotipo 4 .
 
Ma naturalmente il trattamento, anche quello più efficace, sarà meno impattante se somministrato nelle fasi più tardive della malattia, rispetto a quelle precoci. Per questo è così importante lo screening e la diagnosi precoce.
 
Purtroppo, una review degli studi presentati al congresso internazionale di epatologia a Vienna (EASL), dimostra che l’Europa è ancora molto indietro sul versante della diagnosi. E la scarsità degli studi sull’effettuazione dei test per HCV e HBV nel vecchio continente potrebbe invalidare gli sforzi mirati ad individuare i soggetti affetti da queste infezioni. All’edizione 2015 del congresso dell’EASL sono solo 6 gli stati membri della regione europea dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (su 53 totali) a presentare studi sulla testatura per HBV e HCV. L’Italia è fortunatamente tra questi.
 
Alcune popolazioni ad alto rischio vengono studiate in maniera più approfondita di altre, ma solo in un piccolo numero di nazioni. “E’ chiaro dalla nostra review – afferma Jeffrey Lazarus, Professore di Sistemi Sanitari Internazionali all’Università di Copenhagen-  che ci sono gap di conoscenza abissali relativi ai test per HBV e HCV; non abbiamo ancora informazioni sufficienti per pianificare efficaci risposte in termini di salute pubblica in Europa. Il nostro gruppo di ricerca è particolarmente preoccupato del piccolissimo numero di studi pubblicati sulle popolazioni di migranti, delle carceri e sugli omosessuali. Sono tutte popolazioni che potrebbero trarre grandi benefici da interventi mirati di testatura per virus epatitici”.
 
“I virus che colpiscono i fegato – commentaTom Hemming Karlsen, membro del comitato scientifico dell’EASL – come quelli dell’epatite B e C possono causare gravi problemi se non individuati e trattati precocemente. Dobbiamo aumentare la consapevolezza circa il pericolo presentato da questi virus e incoraggiare in maniera attiva l’effettuazione dei test in tutta Europa. Questo non è solo vitale per la diagnosi e il trattamento ma anche ai fini della prevenzione, per arrestare la diffusione dei virus nelle popolazioni e nelle generazioni future”.
 
Maria Rita Montebelli

26 aprile 2015
© Riproduzione riservata

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