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Garaci: ricerca e nuovi farmaci. Servono nuove regole


Un articolo per Quotidiano Sanità del presidente dell'Istituto Superiore di Sanità, Enrico Garaci, sul futuro della ricerca clinica e sulla necessità di nuove regole per i trials clinici e la registrazione dei nuovi farmaci

di Enrico Garaci

03 MAG -
Il convegno delll’Istituto Superiore di Sanità Emerging complexity in Medicine: how to translate new scientific advancements into better patient care, svoltosi a Roma gli scorsi 12 e 13 aprile, ha avuto come oggetto il futuro della ricerca clinica. Un futuro da disegnare tenendo conto dei nuovi contesti ai quali servono nuovi paradigmi perché oggi per produrre innovazione terapeutica c’è bisogno di nuove strategie. Nuovi sistemi a cui serve un nuovo pensiero, una vera e propria riflessione di natura epistemologica su come è mutata la crescita della conoscenza scientifica attraverso l’evoluzione della biomedicina.
È una riflessione che nasce dal nuovo contesto in cui la ricerca lavora dopo l’avvento della rivoluzione molecolare che aveva portato con sé un carico di promesse enormi relativamente alla cura e al trattamento di molte patologie. Promesse che erano state seguite, dopo il sequenziamento del genoma, da un aumento notevole di investimenti in ricerca e sviluppo.

Eppure oggi, a dieci anni da quel clima carico di aspettative, ben poche sono state le promesse mantenute. Le conoscenze si sono moltiplicate, esiste oggi un patrimonio ricchissimo di informazioni che però non si è tradotto ancora in nuove terapie, come dimostra la cartina al tornasole rappresentata in questo campo dalla richiesta di immissione sul mercato di nuovi farmaci, sia chimici che biologici, presso le agenzie regolatorie, diminuite fortemente proprio a partire dal Duemila.

A circa dieci anni dal completamento del sequenziamento del genoma, infatti, è come se la nuova era, invece che essere definita dal progresso delle conoscenze biomediche, fosse definita, paradossalmente, dalla forbice che separa le nuove conoscenze dalla loro traduzione in terapie e benefici per i pazienti.

Di ipotesi sull’origine di questi scenari se ne possono fare diverse. Una riflessione di natura epistemologica ci porta, per esempio, a considerare, con Thomas Kuhn, che probabilmente questa crisi abbia a che fare con la crisi del paradigma scientifico prevalente (ossia dell’insieme delle leggi, delle teorie, delle applicazioni e degli strumenti di una determinata cultura scientifica), che si verifica quando esso perde la sua capacità predittiva collegata ai paradigmi sul quale è fondata la ricerca.
In particolare, nel secolo scorso, la scienza biomedica è stata basata su due pilastri fondamentali: quello anatomico, secondo cui le alterazioni organo-specifiche sono derivate da quelle delle proteine tessuto-specifiche e quindi da un difetto genico, e l’altro basato sulla genetica mendeliana che fa riferimento al Dna del nucleo.

Entrambi i paradigmi, però, come sottolinea Wallace, non spiegano il determinarsi delle malattie più comuni correlate all’invecchiamento e pertanto sarebbe necessario produrre un nuovo paradigma che abbracci i punti di forza dei diversi paradigmi, da quello organo-specifico a quello Mendeliano e li coniughi con il paradigma energetico e il paradigma qualitativo del DNA mitocondriale e quindi anche delle interazioni con l’ambiente. D’altra parte la necessità di paradigmi complessi a definire la biomedicina è evidente anche dai risultati degli studi che mostrano come le alterazioni metaboliche stiano alla base di molte malattie degenerative.

In questo quadro complesso produrre nuovi farmaci non è più la stessa cosa di prima. Lo mostra, infatti, un interessante lavoro recentemente pubblicato da Andrew L. Hopkins su Nature nell’articolo Network pharmacology: the next paradigm in drug discovery che tiene conto delle reti di conoscenze prodotte da questi nuovi paradigmi.

Hopkins promuove l’idea di un nuovo paradigma per la scoperta di nuovi farmaci in base al quale la molecola non deve mirare più semplicemente ad un unico bersaglio ma alla progettazione di farmaci che possono agire in rete attraverso diversi nodi di una struttura integrata come è quella di un organismo umano. Una strategia che diventa essenziale per la lotta alle malattie legate all’invecchiamento dove è sempre più evidente il ruolo della multifattorialità.

Ma la produzione di un farmaco coinvolge, e non in maniera secondaria, anche l’economia, un’altra grossa difficoltà nella produzione di protocolli terapeutici è dovuta al costo dello sviluppo di un nuovo farmaco che per arrivare al mercato ha bisogno di un investimento di circa un miliardo e seicentomila dollari. Tra le fasi più costose, poi, sono proprio le sperimentazioni cliniche di Fase 2 e 3 per le quali, almeno relativamente ad alcuni ambiti, è necessario ripensare alcuni criteri.

Tutti questi problemi di natura diversa si intrecciano infatti fra loro e creano uno scenario su cui bisogna lavorare per fare in modo che l’impasse che si è creata in questi anni non sancisca definitivamente la rottura tra la scienza e i benefici che essa è in grado di produrre.

Ed è stata questa la ragione di questo incontro, che è avvenuto ai massimi livelli, con tutti i protagonisti di questo delicato processo, da grandi ricercatori italiani ma anche scienziati di fama internazionale del calibro di John Orloff, Eric Abadie, Dhavendra Kumar, Andrew Miles, Alberto Grignolo, Mark R. Tonelli, fino ai vertici delle autorità regolatorie nazionali e internazionali ai decisori politici e ai massimi rappresentanti del mondo delle aziende, partner essenziali in questo processo essenziale per la crescita culturale ed economica ma soprattutto per la salute collettiva.

Sono, infatti, i pazienti al centro di tutto questo delicatissimo processo, ne sono l’oggetto e il fine ultimo tanto che abbiamo richiesto la presenza delle Associazioni di Pazienti senza le quali crediamo sia impossibile comprendere realmente il bisogno di cura. Prescindendo infatti dal reale bisogno di assistenza, dalla quotidianità della malattia e da ciò che essa richiede, persino discussioni sui principi e i metodi della scienza rischiano di diventare sterili.

È proprio nella realtà della lotta alle malattie che è già possibile individuare alcuni indirizzi, alcune risposte. Trattare i malati di Hiv, per esempio, è stato possibile grazie alla deroga di alcune regole. Per autorizzare i farmaci, infatti, non è stato necessario, come per le altre patologie, avere i dati di sopravvivenza, ma semplicemente l’andamento di alcuni parametri come i CD4 o la viremia e grazie a ciò oggi i pazienti sopravvivono anche da vent’anni a un’infezione che uccideva anche in pochi mesi. E così sta accadendo per alcune patologie tumorali, dove la ricerca di nuovi marcatori potrebbe rappresentare un surrogato della sopravvivenza. Ci sono inoltre aree di patologie, quali ad esempio le malattie rare prive, nella maggior parte dei casi, di terapie, in cui potrebbe esserci bisogno di sistemi più flessibili.

Siamo tutti coscienti, però, che la strada non è facile né in discesa. Che al momento non c’è una vera e propria soluzione, ma l’aver messo sul tappeto i problemi e averli definiti ce ne rende maggiormente coscienti. Il creare una rete di consapevolezza è stato un altro passo ulteriore per cominciare a risolverli. Si tratta di integrare nuove regole, garantendo la sicurezza, garantendo il Servizio sanitario nazionale, ma garantendo anche alcuni mutamenti che il cambiamento scientifico ha portato con sé naturalmente e, direi, inevitabilmente.

 

03 maggio 2010
© Riproduzione riservata

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