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Speciale cardiologia 6. Freddo killer: aumenta il rischio di infarto e di ictus ischemico

di Maria Rita Montebelli

Uno studio canadese, condotto in una delle regioni più fredde della terra, dimostra che per ogni riduzione della temperatura di 10 gradi, il rischio di infarto STEMI aumenta del 7% e che è possibile prevedere l’ondata di infarti, con due giorni di anticipo, grazie alle previsioni meteo. Uno studio ‘made in Taiwan’ correla invece la riduzione della temperatura con un aumentato rischio di ictus trombo-embolico da fibrillazione atriale.

31 AGO - L’estate, almeno quella da calendario, è agli sgoccioli e le vetrine dei negozi ci proiettano inesorabilmente nel bel mezzo della stagione autunno-inverno, esponendo maglioni, cappotti e capi pesanti. E sembra quasi un presagi e un consiglio, quello di proteggersi bene dal freddo, che risuona anche nell’immensità del centro congressi ExCel di Londra dove si tiene in questi giorni il congresso-mostro (oltre 30 mila delegati) della Società Europea di Cardiologia (ESC).
 
Uno studio canadese presentato da Shuangbo Liu dell’Università di Manitoba di Winnipeg (Canada) dimostra che il freddo va di pari passo con un aumentato rischio di infarto. Non certo una novità, visto che nei testi di medicina si parla da tempi non sospetti di ‘angina da freddo’. Ma questo studio è diverso, perché è riuscito a quantizzare in maniera molto precisa la misura di questo rischio: per ogni caduta di 10 gradi della colonnina di mercurio, il rischio di infarto con elevazione del tratto ST (STEMI) aumenta del 7%. Gli infarti STEMI sono i più gravi e di solito sono causati dalla rottura improvvisa di una placca nelle coronarie; le possibilità di morire a seguito di questo tipo di infarto sono tra le più alte.
 
“Abbiamo studiato gli effetti della temperatura sul rischio di infarto a Winnipeg (Canada), una delle regioni più fredde del mondo – spiega Liu - dimostrando così l’esistenza di una relazione chiara e lineare tra il freddo e il rischio di infarto STEMI. Cosa ancora più importante, questo rischio può essere previsto con un anticipo di un paio di giorni sull’infarto. Sarebbe dunque auspicabile far conoscere questo dato al pubblico e riallocare in futuro delle risorse per organizzare una risposta adeguata a questo prevedibile rischio di infarto stagionale”.
 
Winnipeg, una città di 700mila abitanti è situata nel cuore geografico del Canada ed è nota per i suoi inverni gelidi e le sue estati bollenti. Queste caratteristiche ne fanno un laboratorio di ricerca ideale per studiare gli effetti delle escursioni termiche sugli eventi cardiaci.
 
Il gruppo di ricerca canadese, coordinato da James Tam, è andato a rivedere a ritroso tutti i casi di infarto STEMI verificatisi a Winnipeg nell’arco dei sei anni precedenti. Per lo stesso periodo, sono stati considerati i dati forniti da Environment Canada sulle temperature massime, minime e medie del giorno, del giorno precedente e di due giorni prima di ogni infarto. Sono state raccolte informazioni anche sulle nevicate, mentre non sono stati presi in considerazione i dati relativi ai venti e all’umidità. In totale, ne è risultato che per il 32% dei giorni (684) le massime diurne sono state inferiori allo zero, per il 38% dei giorni comprese tra 0° e 20° e nel restante 31% dei giorni, superiori a 20°.
 
Nell’arco dei 6 anni in esame, sono stati registrati 1.817 infarti STEMI. Dal confronto tra le temperature e le statistiche degli infarti, è emerso che il predittore più importante di questi eventi era rappresentato dalle massime giornaliere. Nelle giornate con massime al di sotto dello zero, i tassi di infarto sono risultati pari a 0,94/giorno, rispetto allo 0,78/giorno delle giornate durante le quali la colonnina di mercurio risaliva al di sopra dello zero. Nonostante le variazioni annuali, il tasso medio di STEMI per tutto il periodo dello studio ha presentato un trend lineare, statisticamente significativo, rispetto alla temperatura. Le massime diurne del giorno o dei due giorni precedenti l’evento infartuale risultavano anch’esse avere un buon potere predittivo.
Le nevicate di per sé invece non aggiungevano, né toglievano niente al rischio di infarto.
 
“Altre ricerche – sottolinea Liu – hanno esplorato gli effetti del clima sui ricoveri totali per infarto e sulla mortalità cardiaca; ma questo è il primo studio espressamente focalizzato sugli infarti STEMI, quelli più pericolosi. I criteri diagnostici per questo tipo di infarti non sono cambiati da vent’anni a questa parte e questo ci ha aiutato a rimanere coerenti con la definizione dei casi nel corso dello studio. Questo studio sottolinea dunque la potenziale influenza dell’ambiente sull’infarto. La possibilità di prevedere con due giorni di anticipo gli eventi infartuali, apre la strada ad ulteriori studi, mirati ad indagare la possibilità di attenuare gli effetti del clima sul rischio di infarto, attraverso qualche strategia terapeutica”.
 
E l’allarme freddo arriva anche da un’altra parte del mondo, dove le temperature stagionali mostrano delle oscillazioni, ma non estreme. Una ricerca dell’Università di Taiwan suggerisce che le basse temperature si correlino con un aumentato del rischio di ictus trombo-embolico in corso di fibrillazione atriale.
La ricerca, condotta da Tze-Fan Chao e colleghi del Taipei Veterans General Hospital e National Yang-Ming University di Taiwan, arriva alla conclusione che il clima freddo sia un fattore di rischio per la salute ampiamente sottostimato, che merita dunque attenzione immediata.
 
La stagione autunno-inverno è stata associata da studi passati ad un aumentato rischio di infarto, ictus e scompenso cardiaco. Tra i possibili meccanismi di questa ecatombe sono stati tirati in ballo un aumento delle concentrazioni di fibrinogeno e di fattore VII della coagulazione. “L’aumento e l’attivazione di questi fattori della coagulazione – ricorda Chao -  può portare ad uno stato pro-coagulante nei climi freddi e questo può favorire la formazione di coaguli nell’atrio sinistro e dunque aumentare il rischio di ictus nei pazienti fibrillanti. Fino ad oggi tuttavia non era chiaro se il rischio di ictus ischemico nei soggetti con fibrillazione fosse più elevato durante la stagione fredda in generale o specificamente nei giorni caratterizzati dalle più basse temperature. La fibrillazione atriale (FA) è la più comune aritmia cardiaca sostenuta e aumenta il rischio di ictus ischemico di 4-5 volte”.
 
Per questo studio, i ricercatori taiwanesi sono andati a spulciare i dati relativi a 289.559 pazienti con FA di nuova diagnosi contenuti nel “National Health Insurance Research Database” e relativi al periodo 2000-2011. Dal Central Weather Bureau sono state inoltre ottenute le temperature medie di sei regioni di Taiwan e, da queste, sono state calcolate le medie di ogni mese e quelle stagionali. I ricercatori sono andati quindi a calcolare le medie delle temperature delle sei regioni (Taiwan è una piccola isola e non ci sono grandi differenze climatiche da una regione all’altra) e a stimare il rischio di stroke ischemico per ogni mese e ogni singola stagione.
In tutta la coorte dei fibrillanti di Taiwan sono stati registrati 34.991 ictus ischemici durante un follow up medio di tre anni; il rischio di stroke è risultato superiore nei mesi più freddi e in generale è risultato maggiore in inverno che in estate. In particolare, il rischio di ictus, rispetto all’estate, è risultato maggiore del 10% in primavera e del 19% in inverno. Nessuna differenza particolare è stata riscontrata invece tra l’autunno e l’estate.
 
Una riduzione della temperatura giornaliera di 5 gradi, nei 14 giorni precedenti l’ictus, è risultata associata ad un rischio di ictus aumentato del 13%. “Questo suggerisce – commenta Chao – la possibilità di prevedere la comparsa di ictus nei soggetti con FA e dunque di mettere in atto misure preventive, come un’anticoagulazione adeguata e ridurre l’esposizione al freddo, riscaldando bene le case e indossando indumenti caldi.
Quando la temperatura scende sotto i 20°, il rischio di ictus ischemico risulta significativamente più elevato rispetto a quando le medie giornaliere sono sopra i 30°, probabilmente perché aumenta la coagulabilità e la viscosità del plasma”.
 
Maria Rita Montebelli

31 agosto 2015
© Riproduzione riservata

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