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Studio SPRINT: abbassare la pressione sistolica a meno 120 mmHg riduce di un terzo infarti e ictus e può salvare molte vite 

di Maria Rita Montebelli

Un trattamento aggressivo della pressione arteriosa, mirato ad una sistolica pari o inferiore a 120 mmHg, riduce di un terzo ictus e infarti e di un quarto la mortalità negli ipertesi dai 50 anni in su. Sono i risultati dello studio SPRINT. Il trial, finanziato dai National Health Institutes, suggerisce dunque di abbassare sensibilmente l’asticella del target di sistolica previsto dalle attuali linee guida, portandolo da 140 a 120 mmHg.

13 SET - E’ un’altalena di numeri quella che si legge negli ultimi anni nelle raccomandazioni degli esperti circa i valori target da raggiungere con il trattamento antipertensivo. C’è stato il periodo del trattamento aggressivo, poi le linee guida si sono ammorbidite, in un revival della ‘curva J’, cioè nel timore che spingere troppo in basso i valori pressori potesse far aumentare il rischio cardiovascolare, anziché continuare a ridurlo. Perché infatti, mentre è ormai chiaro che ridurre i valori di colesterolo fin quasi all’infinito, è un’azione che si associa ad una riduzione continua del rischio cardiovascolare, per la pressione arteriosa, il giudizio definitivo di quale sia il valore ideale da raggiungere è molto più incerto.
Su questo sfondo irrompono i risultati dello SPRINT (Systolic Blood Pressure Intervention Trial), uno studio indipendente, di quelli che gli americani chiamano in maniera pomposa ‘landmark’, cioè ‘pietra miliare’, finanziato e voluto dai National Institutes of Health americani e interrotto precocemente, vista l’eccezionale rilevanza di questi risultati.
 
Il concetto espresso dai risultati dello SPRINT è che un trattamento più aggressivo della pressione arteriosa, mirato a portare i valori di sistolica ben al di sotto del target indicati dalle attuali linee guida, riduce in maniera significativa il tasso di malattie cardiovascolari e quello di mortalità, negli ipertesi adulti dai 50 anni in su.
 
Portare la sistolica al di sotto di 120 mmHg nella popolazione dello SPRINT ha ridotto infatti di circa un terzo i tassi di eventi cardiovascolari (infarti e scompenso cardiaco) e di ictus, mentre ha abbattuto di un quarto il rischio di mortalità, rispetto a quanti erano stati trattati secondo il target sistolico previsto dalle attuali linee guida, ovvero 140 mmHg.
 
“Questo studio – commenta Gary H. Gibbons, direttore del National Heart, Lung, and Blood Institute (NHLBI), principale sponsor dello SPRINT – offre delle informazioni potenzialmente salva-vita che saranno utili ai medici nel considerare le migliori opzioni terapeutiche per alcuni dei loro pazienti, in particolare per gli ultra-50enni. Siamo molto contenti di aver raggiunto questo importante traguardo e di averlo fatto prima della durata prevista dello studio. Ora siamo ansiosi di comunicarne al più presto i risultati completi per migliorare la cura dei pazienti e andare ad influenzare le future linee guida basate sull’evidenza”.
Lo studio SPRINT ha valutato i benefici di raggiungere un target più stringente di pressione sistolica nei pazienti dai 50 anni in su, con aumentato rischio di cardiopatia o di nefropatia. I risultati dimostrano che in valore di sistolica di 120 mmHg, raggiunto con un intervento terapeutico più aggressivo, potrebbe alla fine portare a salvare molte vite tra quegli ultra-50 enni, che presentino, oltre all’ipertensione arteriosa, anche un fattore di rischio aggiuntivo per cardiopatia ischemica.
 
Iniziato nel’autunno del 2009, lo studio ha arruolato, presso un centinaio di centri e ambulatori medici negli USA e a Puerto Rico, oltre 9.300 pazienti di età pari o superiore ai 50 anni. Tra la popolazione arruolata non figuravano pazienti con pregressi ictus, né con diabete o con rene policistico.
 
E’ il più vasto studio mai realizzato ad aver valutato come, mantenere i valori di sistolica al di sotto del livello comunemente raccomandato dalle linee guida (inferiore a 140 mmHg per la popolazione generale e inferiore a 130 mmHg per la popolazione con diabete o con malattia renale), possa avere un impatto sulle malattie cardiovascolari e renali. Lo studio è stato interrotto precocemente dai NIH per poterne comunicare immediatamente questi risultati preliminari così importanti.
 
I pazienti arruolati sono stati randomizzati a due gruppi di trattamento che differivano in base al target pressorio da raggiungere; per il primo gruppo l’obiettivo di sistolica è stato fissato al di sotto di 140 mmHg e i pazienti sono stati trattati in media con due farmaci. Nel gruppo ‘trattamento aggressivo’ invece l’obiettivo di sistolica da raggiungere è stato fissato su valori pari o inferiori ai 120 mmHg e per farlo sono stati utilizzati in media tre farmaci antipertensivi in associazione.
 
“Questi risultati – commenta Lawrence Fine, direttore del settore Clinical Applications and Prevention del NHLBI – forniscono la prova che ridurre la pressione a target inferiori, nei soggetti anziani o ad alto rischio, può apportare grandi benefici. Ma i pazienti tuttavia dovrebbero consultarsi con il loro medico per valutare se questi obiettivi più stringenti siano realmente adatti a loro”.
 
I risultati completi dello studio valuteranno anche le ricadute di una sistolica più contenuta sui tassi di nefropatia, funzione cognitiva e demenza. Ma per questi bisognerà attendere il prossimo anno, mentre i risultati preliminari, già rivelati, verranno pubblicati nei prossimi mesi.
 
“i risultati preliminari dello studio SPRINT – ha commentato Kim Allan Williams, presidente dell’American College of Cardiology – dimostrano perché la comunità cardiovascolare deve continuare a combattere in maniera aggressiva una condizione che porta a ictus, malattie renali e problemi cardiaci. I risultati in dettaglio dello SPRINT daranno un grande contributo alle future linee guida di trattamento della pressione arteriosa. E nel frattempo questi dati offrono ai medici informazioni da tenere in considerazione nella loro pratica clinica quotidiana per migliorare gli outcome nei loro pazienti ipertesi”.
Sponsor principale dello studio è stato il NHLBI; co-sponsor sono stati il National Institute of Diabetes and Digestive and Kidney Diseases, il National Institute of Neurological Disorders and Stroke e il the National Institute on Aging.
 
Maria Rita Montebelli

13 settembre 2015
© Riproduzione riservata

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