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Nozze da 150 miliardi di dollari per Pfizer e Allergan. Ma chi ci guadagna?

di Fabrizio Gianfrate

C’è una domanda su tutte che l’osservatore neutrale, ma soprattutto le Istituzioni e le autorità regolatorie, antitrust in testa, dovrebbe porsi, la più importante: qual è il plusvalore di queste fusioni per la collettività in termini, appunto, di beneficio sanitario (farmaci innovativi migliori) ed economico (occupazione, sviluppo, gettito fiscale, ecc.)?

24 NOV - Se qualcuno ti porta via la moglie, non c’è vendetta migliore che lasciargliela. Deve avere pensato così qualche azionista di farmaceutiche succube di fusioni o acquisizioni, merger o aquisition (M&A), guardando ai risultati non lusinghieri nel medio e lungo termine di queste operazioni.
 
Chissà se sarà così anche per Pfizer e Allergan che hanno annunciato il loro matrimonio, nozze da favola, oltre 150 miliardi di dollari, la più grande operazione del genere mai fatta. Per un’azienda che varrà oltre 340 miliardi di dollari, la prima farmaceutica al mondo per valore di borsa e fatturato, staccando la seconda, Johnson & Jonshon, al palo dei 280 miliardi.
 
Per Pfizer sono le quarte nozze, dopo Wyeth per 68 miliardi nel 2009, Pharmacia nel 2004 per 53 miliardi e Warner-Lambert nel 1999 per 89 miliardi di dollari. Adesso sull’altare di Wall Street dice sì alla Allergan, altro colosso dalla pregressa vita di coppia complessa (Teva, Actavis, ecc.).
 
Nell’ultimo quinquennio sono state molte le unioni tra farmaceutiche, a seguire un trend iniziato a inizio anni ’90 con Sandoz e Ciba (Novartis), poi Glaxo e Wellcome, poi in terze nozze con Smth Kline (GSK) a sua volta nata Beecham, Astra in Zeneca, Bristol e Squibb e così via, in un tourbillon multimiliardario tra Europa, USA e anche Giappone.
 
E altre ne arriveranno. Perché le altre “big” reagiranno all’unione Pfizer-Allergan per non retrocedere nella classifica di chi ce l’ha più grosso, il fatturato. Lottando, nell’imperante e trasversale finanziarizzazione dell’economia produttiva, per accaparrarsi i trilioni dei grandi investitori flottanti nelle varie Stock Exchange, pronti a spostarsi in massa dove è più conveniente.
 
Basti pensare che nella prima metà del 2015 il valore delle operazioni di M&A nel farmaceutico è triplicato rispetto allo stesso periodo del 2014, da 69 a 221 miliardi di dollari. Un delta destinato ad aumentare stracciando il totale 2014, 162 miliardi. Con Pfizer-Allergan siamo già a un cumulo 2015 intorno ai 500 miliardi. Precise le ragioni di questo trend, generali e specifiche di settore.
 
Quelle generali sono il permanere del “cheap financing”, i tassi creditizi più bassi della storia, e la “tax inversion” cioè la possibilità di pagare le tasse (molte meno) in Paesi a bassa fiscalità. Allergan, ad esempio, ha sede in Irlanda e paga un’aliquota del 4,8%. Aziende da decine di miliardi che pagano aliquote di un quinto rispetto a un precario di call centre a 400 euro al mese: qualcosa nel sistema fiscale EU è probabilmente da rivedere. Va da sé, inoltre, che la globalizzazione facilita sempre più processi dimensionali di scala abbattendo le frontiere soprattutto con i Paesi a basso costo di produzione.
 
Le ragioni specifiche di settore sono diverse: l’elevata liquidità e il relativamente basso valore dei corsi azionari che, nella giungla carnivora della finanza rende masticabili anche bocconi assai grossi come appunto molte delle farmaceutiche mondiali. Conta poi la solidità del settore dettata dalla stabilità e dall’anticiclicità del farmaceutico. Pesa poi la caccia a “pipeline” di nuovi blockbusters capaci di cambiare la dimensione stessa di un’azienda, come accaduto in passato con alcuni di essi (Viagra, Torvast, Glivec, Humira, ecc.).
 
Fusioni e acquisizioni tra farmaceutiche sono poi uno strumento per realizzare economie di scala contro i cali di “revenues” da scadenze brevettuali, oltre 100 miliardi nell’ultimo triennio, e dai rubinetti sempre più serrati dei prezzi e rimborsi delle sanità pubbliche.
 
Dottrina economica insegna che le fusioni, ovviamente in tutti e settori non solo nel farma, possono abbassare i prezzi dei prodottigrazie al guadagno d’efficienza e di produttività ma nel contempo riducono la concorrenza così da poterli invece spingerli verso l’alto. Nel farmaceutico l’incrocio diventa spesso complicato con quelle particolarità uniche e tipiche del settore, come i prezzi amministrati, i payer pubblici, l’utilità collettiva e l’equità d’accesso.
 
La domanda chiave tuttavia da porsi è la seguente: a parte le succulente “fees” per le “Merchant Bank” e le “Global Consultancy Firm”, incaricate di gestire le une finanziariamente le altre l’organizzazione in queste mega operazioni, quali sono i vantaggi da esse derivanti? Ha ragione quell’azionista dell’incipit di cui sopra a lamentarsi? La risposta è difficile. Il valore intrinseco, multifattoriale, di una grande industria farmaceutica è talmente elevato e complesso, forse ineguagliabile rispetto ad altri settori, che misurarlo e valutarlo rasenta l’impossibile. 
 
Prendendo gli indicatori più comuni, analizzando l’andamento delle azioni, di frequente troviamo valori “post-merger” costantemente inferiori a quelli a esso antecedenti. Lo stesso vale confrontando i fatturati e le quote di mercato della nuova entità, con le sommatorie delle due rispettive singole aziende inferiori dopo la fusione rispetto a prima.
 
Le cause sono diverse e complesse e questo spazio non è sufficiente per argomentarne adeguatamente. Cito solo la perdita di professionalità ed esperienza per la “dismissione” di personale qualificato effettuata spesso con obiettivi di risparmio a breve, guidati da criteri anagrafici (prepensionamenti, scivolamenti e simili) o di appartenenze pregresse all’uno o all’altro degli sponsali, seguendo le cordate localmente vincenti più che l’effettivo valore dei singoli.
 
Ma c’è una domanda su tutte che l’osservatore neutrale, ma soprattutto le Istituzioni e le autorità regolatorie, antitrust in testa, deve porsi, la più importante: data la valenza del “bene farmaco”, sociale del prodotto ed economica del produttore, qual è il plusvalore di queste fusioni per la collettività in termini, appunto, di beneficio sanitario (farmaci innovativi migliori) ed economico (occupazione, sviluppo, gettito fiscale, ecc.)? Anche considerando che dappertutto, USA inclusi, tutti noi paghiamo i farmaci attraverso le sanità pubbliche?
 
Certo i M&A facendo economie di scala determinano un inevitabile aumento della disoccupazione (Pfizer-Wyeth, solo per fare un esempio replicabile nelle altre operazioni simili, ebbe globalmente 19.500 esuberi, l’equivalente della metà del personale Wyeth in tutto il mondo), con quindi a carico della società un incremento degli oneri sociali connessi e una riduzione dei moltiplicatori economici per il ridotto flusso circolare del reddito. La migliore crescita nel medio e lungo termine dovrebbe ristabilire se non migliorare il profilo occupazionale, magari geograficamente dislocato (Paesi emergenti o simili)
Un’altra variabile negativa è la già citata riduzione complessiva del gettito fiscale diretto e indiretto per l’erario dei vari Stati in caso d’incremento dei trasferimenti fiscali in Paesi dalla tassazione più conveniente.
 
Ma il valore aggiunto più importante per la collettività è come queste operazioni incidano sull’arrivo o meno di farmaci realmente innovativi e migliori di cui beneficiare. Il tasso d’innovazione è un punto al contempo causa ed effetto dei M&A farmaceutici. Un motivo chiave dei matrimoni tra farmaceutiche è infatti proprio nei nuovi prodotti in arrivo contenuti nella pipeline della “sposa” da impalmare.
 
Tuttavia, celebrata la funzione e firmate le carte acquisendo in dote la pipeline della sposa, che è prole di letti precedenti, che succede dopo, quanti nuovi farmaci saranno concepiti e nasceranno dalla nuova coppia? Fatto salvo l’ultimo anno, da quando questi “merger” si susseguono, cioè l’ultimo quarto di secolo, è in realtà calato il numero di farmaci innovativi scoperti, col minimo raggiunto tre anni fa, il più basso dell’ultimo trentennio.
 
Inoltre le poche molecole innovative (NCEs) sono venute per lo più da piccole “companies” o, paradossalmente, da “big pharma” rimaste volutamente nubili. Un po’ come certe donne troppo belle o troppo intelligenti e colte per perdersi dietro al ricco burino dalla risata rumorosa e dalle troppe promesse.
 
Le cause negative di quest’aridità delle “pipeline” di grandi multinazionali accorpate sono state proprio di natura dimensionale: con le fusioni sono diventati troppo grossi e centralizzati i centri di ricerca, mega cattedrali elefantiache dalle ali impiombate dalla loro stessa burocrazia e dalla gerarchizzazione dei ricercatori, a incatenare la loro espressione creativa. Si sono poi spesso edificati dei veri e propri “califfati” buoni a drenare milioni bruciati in esercizio del potere dei capi, molti stipendi e poca innovazione. Non solo all’estero.
 
Tant’è che la ricerca farmaceutica delle big pharma ha oggi infatti dismesso quei pachidermici centri di ricerca, quei “moloch” terribilmente statici, mutando verso modelli organizzativi dinamici di network di partnership e collaborazioni con centinaia o migliaia di piccoli laboratori di università o aziende di discovery ultra specializzate soprattutto biotech intorno al mondo, da cui acquistare i brevetti, o l’intera proprietà, quando promettente o conveniente. L’innovazione oggi, e sempre più nel futuro, vuole come slogan quellodell’economista tedesco degli anni ’70, Ernst Friedrich Schumacher: “piccolo (ma ultra specializzato, ndr.) è bello”.
 
Ad eccezione dell’ultimo anno, gli stitici numeri delle NCEs dell’ultimo quarto di secolo suggeriscono che il matrimonio (farmaceutico) è la tomba dell’amore (per l’innovazione). Vedremo se in futuro, imparata la lezione, le nozze tra big pharma avranno risultanze fertili e prolifiche come gli ultimi mesi sembrano fare felicemente intravedere.  
 
Cosa non accaduta per decenni. Insomma, volendo tirare le somme sull’opportunità di sposarsi tra farmaceutiche nell’ottica del beneficio per la collettività, tra scarsa innovazione, licenziamenti di massa e sempre meno tasse pagate, viene in mente quella superfiction nazional-popolare ante litteram sul matrimonio, ma coi ruoli rivisti e adattati ai tempi che corrono.
 
Dove tra l’ormonale Renzo che “whatsappa” cuoricini alla sorniona Lucia e poi frasi sconce a quella tardona insaziabile di Donna Prassede, il tremulo Don Abbondio che intriga con le elemosine per rifarsi l’attico col suo giovane collaboratore, spicca eroico il Don Rodrigo dell’antitrust, le “esse” schiumose e le “e” chiuse del brianzolo (data la location) che ai suoi aggressivi managers, “bravi”, impone: “mi  si consenta, questo matrimonio non s’ha da fare”.
 
Prof. Fabrizio Gianfrate
Economia Sanitaria

24 novembre 2015
© Riproduzione riservata

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