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Epilessia. In molti casi la terapia non funziona per problemi di autoimmunità

di Maria Rita Montebelli

Appare sempre più evidente che molte delle forme di epilessia etichettate come ‘refrattarie’ alla terapia tradizionale sono sostenute da problemi di autoimmunità. Se ne parla in questi giorni al congresso dell’American Epilepsy Society; gli scienziati chiedono nuove linee guida per stratificare meglio questi pazienti sulla base della tipologia di anticorpi presenti

05 DIC - Fino a poco tempo fa ci si limitava a chiamarla epilessia ‘refrattaria’ alla terapia. Ma adesso sta diventando evidente che una buona parte di queste forme è legata ad una disfunzione del sistema immunitario. Anche se non sono ancora del tutto chiare le modalità con le quali le cellule del sistema immunitario attaccano le cellule nervose , provocando così gli attacchi epilettici.
Due studi presentati al 69° congresso annuale della American Epilepsy Society (AES) in corso in questi giorni a Philadelphia,  gettano luce su diverse tipologie di risposte autoimmuni e sulle relative conseguenze nei pazienti con epilessia farmaco-resistente. Da questi studi emerge in particolare che non tutte le epilessie autoimmuni sono uguali, almeno per quanto riguarda prognosi e risposta al trattamento.
 
E questo a cominciare dagli autoanticorpi. Quelli diretti contro le proteine intracellulari sono associati ad una prognosi peggiore e ad una scarsa risposta all’immunoterapia, rispetto agli autoanticorpi diretti contro le proteine di superficie cellulare. Uno studio condotto da Università di Toronto e Western University ha analizzato i dati clinici e gli elettroencefalogrammi (EEG) di 9 pazienti affetti da epilessia autoimmune. Tre di loro presentavano anticorpi contro la proteina intracellulare Ma2; gli altri sei presentavano anticorpi contro la proteina di superficie LGI1.
 
Tutti i pazienti con anticorpi anti-Ma2 erano stati ricoverati in precedenza in terapia intensiva ed erano stato colpiti da stato epilettico, mentre solo un paziente del gruppo anti-LGI1 aveva presentato queste complicanze. Un’altra importante differenza evidenziata tra i due gruppi è che mentre tra  i pazienti anti-LGI1 l’unico problema neurologico era rappresentato dall’epilessia, quelli anti-Ma2 presentavano anche problemi di narcolessia o disturbi comportamentali. In due pazienti su 3 del gruppo anti-Ma2 sono stati riscontrati anche dei tumori.
 
Entrambi i gruppi avevano in comune una forma di epilessia mal controllata nonostante una terapia di associazione di più farmaci; i pazienti anti-Ma2 inoltre rispondevano peggio all’immunoterapia rispetto a quelli LGI1.
 
“In generale – afferma Claude Steriade dell’Università di Toronto - i pazienti con anticorpi anti-Ma2 presentano un decorso più sfavorevole rispetto a quelli con anticorpi anti-LGI1; mentre è comune ai due gruppi il fatto di non rispondere alle terapie tradizionali, i pazienti antiLGI1 rispondono meglio all’immunoterapia rispetto a quelli con anticorpi anti-Ma2”.
 
Un secondo studio presentato dall’Hospital Clinic di Barcellona (Spagna) suggerisce che alcuni pazienti affetti da epilessia autoimmune possono trarre beneficio dal trattamento chirurgico, la risposta al quale risulta indipendente dalla tipologia di anticorpi presente.
 
Uno studio retrospettivo multicentrico ha valutato gli esiti di un intervento di chirurgia cerebrale effettuato su 11 pazienti con epilessia farmaco-resistente e disfunzione immunitaria. Prima dell’intervento i pazienti erano stati caratterizzati sulla base della tipologia di autoanticorpi presente (2 pazienti presentavano anticorpi anti-Ma2, 5 anti-GAD, 1 anti-Hu, 2 anti-VGKC, 1 anti-LGI1 e 1 anti-CASPR2).
Dopo l’intervento chirurgico, 5 pazienti sono risultati alle visite di follow-up liberi (o quasi liberi) da episodi convulsivi, indipendentemente dalla tipologia di autoanticorpo espressa.
 
“Il trattamento chirurgico – sostiene Mar Carreño, epilettologo dell’Hospital Clinic di Barcellona – può migliorare la frequenza di comparsa degli episodi convulsivi in alcuni pazienti con epilessia refrattaria al trattamento farmacologico, indipendentemente dalla tipologia di autoanticorpi presenti. C’è estrema necessità di mettere a punto delle linee guida per arrivare ad una migliore classificazione di questi pazienti e di registri internazionali che ne consentano di studiare gli outcome in popolazioni più numerose”.
 
Maria Rita Montebelli

05 dicembre 2015
© Riproduzione riservata

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