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Per invecchiare bene, ci vuole psicologia


L’invecchiamento in molti casi può accompagnarsi a dolore, depressione, declino cognitivo, demenza. Per questo, nell’assistenza agli anziani, l’approccio della medicina scientifica è sempre più spesso affiancato da quello della “medicina narrativa”. Dal 7 al 9 aprile a Gardone Riviera (Bs) convegno dell’Associazione italiana di Psicogeriatria (Aip).

05 APR - L’invecchiamento in molti casi può accompagnarsi a dolore, depressione, declino cognitivo, demenza, problematiche che non possono essere gestite solo sul piano puramente terapeutico-farmacologico. In questo campo, infatti, da qualche tempo si parla di medicina della complessità e psicogeriatria: “Si tratta di un approccio di cura  molto sfaccettato, nel quale il medico per curare bene deve mettere insieme  i dati biologico-clinici con altri aspetti, dalle capacità di relazione ai supporti che può ricevere il paziente” spiega Marco Trabucchi, che presiederà dal 7 al 9 aprile a Gardone Riviera (Bs) l’11° congresso dell’Associazione italiana di Psicogeriatria (Aip). Tra i temi, valutazione del declino cognitivo, riabilitazione e problematiche psicogeriatriche, diagnosi e terapie, assistenza e servizi, ma anche qualità della vita e “medicina narrativa”. “Soprattutto nelle malattie croniche dell’anziano, che sono la maggioranza in questi soggetti, l’interazione tra aspetti biologici e psicologici sono molto forti. Perciò in aggiunta all’approccio della medicina scientifica cioè delle evidenze da qualche anno si è diffuso anche quello della medicina narrativa, che agisce sulla componente del “sentire”individuale”. Questa si basa sul racconto della propria esperienza di malattia, inquadrata nel proprio contesto, utile al pari dei sintomi clinici per definire le strategie d’intervento. La valutazione completa riguarda, oltre a funzioni cognitive, stato funzionale e psicologico, sintomi comportamentali, anche contesto familiare, sociale, culturale ed economico.
“La medicina delle evidenze non può tenere conto di tutte le particolarità, delle specificità di ciascun paziente” si ricollega Alessandro Padovani, direttore Clinica neurologica dell’Ospedale Civile di Brescia. “Questo vale anche per la diagnosi. L’Alzheimer si sta rivelando più complesso di quanto si riteneva fino a pochi anni fa: ci sono tante strategie diagnostiche perché ci sono tante malattie di Alzheimer, si disegnano sottopopolazioni di pazienti che saranno potenziali target di sottogruppi terapeutici. Un problema conseguente è la grande quantità di dati che bisognerà gestire; ci sono poi nuove incognite, per esempio, se saremo in grado di sapere con anticipo di anni chi svilupperà la malattia, come procedere con questi soggetti”. Ma dove sta andando la ricerca sulla terapia, a parte i farmaci che migliorano i sintomi, da quando da una decina d’anni si punta a un vaccino? “Tutto ruota ancora sulla beta-amiloide, tipico alterazione neuropatologica dell’Alzheimer, cioè sui farmaci biologici detti vaccini in quanto anticorpi diretti contro questa sostanza” riprende Padovani. “Ce ne sono cinque in sviluppo e uno dovrebbe essere approvato dalla Fda statunitense nel 2013. Sono allo studio anche sostanze che agiscono sulla gamma-secretasi, modulatori della beta-amiloide. Ma non si può dire se intervenendo sull’amiloide si potrà intervenire rispetto alla malattia. La possibilità di agire in fase prodromica, prima che si sviluppi la patologia, è oggetto di molte aspettative ma per ora è un’ipotesi non dimostrata; comunque è verosimile che s’identifichino con la Pet, tecnica più avanzata, soggetti a maggior rischio sui quali potenzialmente intervenire”. Sia per la diagnostica che per le terapie più di frontiera si apre però sempre più il problema dei costi, da aggiungere a quelli per l’assistenza che sono già elevati e che in gran parte gravano sulla famiglie (si calcolano circa 60mila euro all’anno per malato): e le persone affette da Alzheimer in Italia oggi sarebbero quasi 800mila, con proiezioni future molto preoccupanti.
E.V.
 

05 aprile 2011
© Riproduzione riservata

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