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Ictus dopo attacco ischemico. Il rischio si riduce grazie a diagnosi accurate e prevenzione. Ma il merito va soprattutto alle stroke unit e ai centri specializzati

di Maria Rita Montebelli

Il rischio di subire un ictus dopo un attacco ischemico transitorio si calciolava fino a quale che anno fa in percentuali tra il 12 e il 20%. Oggi, secondo uno stidio pubblicato sul New England Journal of Medicine appare ridotto alla soglia del 5% a distanza di un anno dall'evento. Mentre il rischio di un composito di eventi e mortalità cardiovascolare, sempre ad un anno da un TIA, supera di poco il 6%

22 APR - Studi condotti qualche anno fa hanno stabilito che il rischio di rimanere vittime di un ictus, entro tre mesi da un attacco ischemico transitorio (TIA) si aggira sul 12-20%. Per analizzare meglio i fattori eziologici, il profilo dei pazienti che afferiscono a centri dotati di stroke unit e i loro esiti un gruppo internazionale di neurologi, coordinato da Pierre Amarenco (dipartimento di neurologia e stroke center, Ospedale Bichat di Parigi) ha costruito un progetto ad hoc, il TIAregistry.org.
 
Per lo studio, nel periodo di tempo compreso tra il 2009 e il 2011, sono stati reclutati presso 61 centri in 21 nazioni , 4.789 pazienti, che avevano presentato un TIA o un piccolo ictus nell’arco della settimana precedente. Il 78,4% di loro è stato valutato da uno specialista in ictus nell’arco delle prime 24 ore dalla comparsa dei sintomi. Il 33,4% presentava un infarto cerebrale acuto, il 2,2% aveva almeno una stenosi extra o intra-cranica del 50% o più e il 10,4% presentava fibrillazione atriale.
 
I ricercatori hanno quindi provveduto a stimare il rischio ad un anno di ictus o di un outcome composito di ictus, sindrome coronarica acuta e mortalità per cause cardiovascolari. Sono stati inoltre valutati l’associazione del punteggio ABCD2 con il rischio di stroke, i risultati degli esami radiologici e  le cause di TIA o stroke minori con il rischio di recidive di ictus nell’arco di un anno.
 
La stima ad un anno dell’outcome cardiovascolare composito è stata del 6,2%, mentre le stime relative alle percentuali di ictus a 2, 7, 30, 90 e 365 giorni sono state rispettivamente pari a 1,5%, 2,1%, 2,8%, 3,7% e 5,1%.
La presenza di infarti cerebrali multipli negli studi di imaging cerebrale, di aterosclerosi dei grossi vasi e uno score ABCD2 di 6 o 7 sono risultati associati ad un rischio di ictus più che raddoppiato.
 
Gli autori concludono che il rischio di eventi cardiovascolari successivi ad un TIA in questo studio risulta nettamente inferiore a quanto riportato dagli studi precedenti. Il punteggio ABCD2, i reperti agli studi di neuro-imaging e la presenza o meno di aterosclerosi dei grossi vasi sono d’aiuto nello stratificare il rischio di una recidiva di ictus a 1 anni, dopo un TIA o un ictus minore.
 
In un editoriale di commento a firma di Ralph Sacco (Dipartimento di Neurologia, Università di Miami) pubblicato sullo stesso numero del New England, l’esperto americano offre però una chiave di lettura a questa bella sorpresa e una call to action per fare sempre meglio in questo campo.
 
“I pazienti con sintomi neurologici sfumati possono sfuggire ai nostri sistemi di individuazione di un ictus acuto o per il ritardo dei pazienti nel recarsi dal medico, o perché il medico ritiene che non ci sia bisogno di un trattamento urgente. Queste opportunità perse sono ancora più preoccupanti visti gli incredibili progressi fatti nella qualità della prevenzione primaria e secondaria dello stroke, ivi compresi l’uso di farmaci antiaggreganti e anticoagulanti orali, un miglior controllo dell’ipertensione, della dislipidemia e del diabete; studi di neuro-imaging più accurati, un aumentato impiego di trombolitici e di trattamenti interventistici per lo stroke acuto e l’istituzione delle stroke unit”.
 
Se la rapidità della diagnosi e dei trattamenti hanno migliorato gli esiti dell’ictus, la valutazione urgente dei TIA o degli ictus minori, insieme all’impiego di terapie preventive, possono enormemente ridurre il rischio di ictus futuri.
 
Lo studio di Amarenco e colleghi ha riscontrato un minor rischio di ictus dopo un TIA o un ictus minore, rispetto a quanto atteso, ma lo studio è stato condotto presso i centri specializzati per la valutazione dei TIA all’interno dei quali vengono forniti tempestivamente trattamenti da specialisti in stroke. Questo a portato ad una stima del rischio di futuri ictus nei pazienti colpiti da TIA,  inferiore di almeno il 50% rispetto a quanto atteso sulla base degli studi precedenti; un dato questo che conferma i risultati di altri recenti studi e cioè che i tassi di ictus dopo un TIA o un ictus minore sono in calo.
 
“La prevenzione e il trattamento dell’ictus hanno fatto molta strada – scrive Sacco – e i risultati di questo studio dovrebbero indurre autorità sanitarie e decisori di strategie politiche ad apportare i necessari cambiamenti nei centri deputati al trattamento dei pazienti con ictus, al fine di erogare le cure più efficaci non solo ai pazienti con ictus, ma anche a quelli con TIA e stroke minori”.
I risultati di questo studio suggeriscono dunque l’utilità di creare unità specializzate per la cura dei pazienti con TIA o ictus minori, all’interno delle quali sia possibile effettuare rapidamente valutazioni diagnostiche e istituire trattamenti preventivi evidence-based da parte di specialisti in stroke, per ridurre il rischio di incorrere prima o poi in un ictus.
“I nostri pazienti e il pubblico – conclude Sacco - hanno diritto ad avere accesso a quanto di meglio possiamo offrire loro per prevenire l’ictus”.
 
Maria Rita Montebelli

22 aprile 2016
© Riproduzione riservata

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