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Ipertensione. Abbassare la sistolica sotto i 120 mmHg porterebbe ad evitare oltre 107.000 decessi l’anno negli USA. Ma a caro prezzo

di Maria Rita Montebelli

Un gruppo di ricercatori americani, ha effettuato una simulazione di cosa si otterrebbe negli Stati Uniti se venisse applicata alla popolazione generale la ‘lezione’ dello studio SPRINT. Ma il prezzo da pagare sono numerosi effetti indesiderati:  56.100 episodi di ipotensione, 34.400 sincopi, 43.400 episodi di squilibri elettrolitici gravi e 88.700 casi di insufficienza renale acuta per anno. Forse è meglio accontentarsi di un obiettivo terapeutico di 130 mmHg per la sistolica?

14 FEB - Prevenire oltre 100 mila decessi l’anno. Un obiettivo raggiungibile controllando in maniera efficace la pressione arteriosa. Ma è veramente tutto oro quel che luccica? Se lo è chiesto uno studio dell’Università dello Utah appena pubblicato su Circulation che è andato ad effettuare una simulazione di cosa accadrebbe applicando i criteri dello studio SPRINT (Systolic Blood Pressure Intervention Trial) ad una popolazione reale.
 
“L’impatto sulla salute pubblica derivante da un controllo intensivo della pressione arteriosa nei giusti pazienti  – afferma Adam Bress dell’Università dello Utah – sarebbe enorme”. E le sue affermazioni si basano sui risultati ottenuti dallo studio SPRINT, una pietra miliare tra gli studi di intervento sull’ipertensione arteriosa. Il trial ha dimostrato che abbassare la sistolica al di sotto dei 120 mmHg riduce in maniera importante il numero di infarti, ictus e mortalità correlata nei soggetti ad alto rischio di malattie cardiovascolari (ma senza storia di diabete, ictus o scompenso cardiaco) , rispetto a chi mantiene la sistolica intorno ai 140 mmHg.
 
Come sempre però, ci vuole tempo prima che le ‘lezioni’ scaturite dagli studi scientifici vengano implementate nella pratica clinica. E per capire cosa potrebbe succedere nella pratica clinica quotidiana grazie all’implementazione degli obiettivi ambizioni dello SPINT i ricercatori americani hanno attinto ai dati del National Health and Nutrition Examination Survey, effettuato dal National Center for Health Statistics, nel periodo compreso tra il 1999 e il 2006.
All’interno di questa mole di dati, si sono quindi focalizzati su circa 2.000 soggetti, di entrambi i sessi, di età media 68,6 anni, che rispondevano ai criteri di eleggibilità dello studio SPRINT. Il tasso di mortalità annuale di questo gruppo di soggetti era del 2,2%. Analizzando l’impatto della terapia intensiva su questa popolazione e rapportandolo a livello nazionale,  gli autori hanno calcolato un possibile risparmio di 107.500 decessi e 46.100 casi di scompenso cardiaco l’anno, al prezzo però di 56.100 episodi di ipotensione, 34.400 sincopi, 43.400 episodi di squilibri elettrolitici gravi e 88.700 casi di insufficienza renale acuta per anno.
 
La principale causa di mortalità negli USA è rappresentata dalle malattie cardiovascolari. In passato il target terapeutico per la sistolica era stato indicato su valori inferiori a 140 mmHg; ma i risultati dello studio SPRINT hanno abbassato sensibilmente l’asticella di questo obiettivo, dimostrando che è possibile tagliare di un ulteriore 27% la mortalità, applicando un regime di terapia antipertensiva intensivo.
 
“Il rischio di sviluppare ipertensione nel corso della vita – ricorda uno degli autori dello studio Richard Cooper, professore e direttore di Public Health Sciences presso la Loyola University Medical School - si aggira intorno all’80%. Adottare un trattamento ottimale rappresenta uno dei più significativi contributi della medicina in termini di sopravvivenza dei pazienti. E’ importante capire che anche un piccolo miglioramento nella gestione dei singoli individui può avere un impatto importante sulla salute della gente”.
 
E’ chiaro che per perseguire un obiettivo ambizioso come una sistolica uguale o inferiore a 120 mmHg, è necessario attingere a piene mani al repertorio dei farmaci antipertensivi, arrivando magari ad associarne 3 o 4 diversi; ma i farmaci necessari per ottenere un controllo intensivo della pressione sono comunque già disponibili, costano poco, sono collaudati da tempo, dunque sicuri ed efficaci.
Allo stesso tempo anche le visite di controllo dal medico dovranno essere più frequenti, come anche il riscorso agli esami di laboratorio. E il tutto si tradurrebbe  in una spesa maggiore nel breve termine. Un dato certamente da tenere in debito conto visto che gli ipertesi stelle e strisce sono 80 milioni (praticamente un americano su tre) e che i costi attuali per curare questo esercito di pazienti ammontano già a 80 miliardi di dollari l’anno.
 
Va anche considerato che nella simulazione dei ricercatori americani, l’implementazione di questi obiettivi stringenti sulla sistolica, provocherebbe non pochi effetti indesiderati, dalla tosse, agli edemi declivi, all’astenia. E non pochi medici potrebbe trovare ‘indigesta’ l’idea di abbassare la pressione a questi valori per paura di incappare in qualche sincope di troppo (34.400 quelle previste nei pazienti della simulazione), in un peggioramento acuto della funzionalità renale (88.700 casi di insufficienza renale acuta per anno previsti), in non pochi episodi di squilibrio idro-elettrolitico (43.400 quelli previsti nella simulazione) e forse addirittura in un declino delle funzioni cognitive del paziente.  
 
Insomma, il vero nodo da sciogliere rispetto al trattamento intensivo della pressione arteriosa, resta il giusto target terapeutico, e il delicato bilancio tra i rischi inerenti ad un abbassamento eccessivo della pressione e quelli di un eccesso di ictus e infarti. “Probabilmente – afferma Cooper – il giusto target terapeutico per la sistolica andrebbe fissato a 130 mmHg. Andrebbe inoltre effettuata un’accurata selezione dei pazienti da sottoporre a trattamento intensivo, basata magari sulla fascia d’età o sull’assenza di diabete o di altre condizioni comorbili.
 
Maria Rita Montebelli

14 febbraio 2017
© Riproduzione riservata

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