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Ipertensione polmonare. Il 5 maggio la giornata mondiale. Italia virtuosa, ma manca capillarità

di Attilia Burke

Il 5 maggio si terrà la giornata mondiale dell'ipertensione polmonare, la condizione cronica che affama d'aria chi ne soffre e, se non diagnosticata in tempo, porta ad esiti infausti. L'Italia è in prima linea nel trattamento della patologia, ma le diagnosi sono tardive e manca capillarità.

03 MAG - Respirare solo e unicamente attraverso una cannuccia di un paio di millimetri di diametro potrebbe aiutare a capire, almeno in piccola parte, cosa prova chi soffre di ipertensione polmonare e cosa significa avere “fame d'aria”. La stanchezza e il continuo affanno sono il marchio di fabbrica di questa condizione: fatica a camminare, fatica a sollevare un sacchetto della spesa, difficoltà anche a intrattenere una banale conversazione al telefono, ad asciugarsi i capelli con il phon o semplicemente a sciacquarsi il viso.
 
I piccoli gesti che si compiono quotidianamente non sono così scontati per questi pazienti. Ed è proprio dalle associazioni pazienti che, a pochi giorni dalla giornata mondiale dedicata all'ipertensione polmonare che si terrà il 5 maggio, arriva un appello affinché si faccia qualcosa per aumentare l'awareness della patologia, non solo tra la popolazione generale, “troppo avvezza a fidarsi di Dr. Google e Dr. Facebook”, ma anche medica: “Questa condizione cronica degenerativa, se non curata, porta a un destino infausto, ma spesso non viene riconosciuta, o viene sottovalutata e scambiata per altre patologie e/o carenze che possono indurre stanchezza”, spiega Vittorio Vivenzio, presidente Amip (Associazione malati di ipertensione polmonare onlus) oggi a Roma, in occasione della conferenza “Ipertensione polmonare mai più orfana di diagnosi”, realizzata con il contributo incondizionato di Msd Italia.
 
“Troppe volte i malati arrivano ai trattamenti dopo una vera via crucis tra diagnosi sbagliate, sintomi ignorati, cure improvvisate ed è così, nostro malgrado, che ci troviamo ad essere “orfani di diagnosi” - afferma Leonardo Radicchi, presidenti Aipi (Associazione ipertensione polmonare italiana) - Bisogna educare la società e il mondo medico in particolare. Mi riferisco ai medici di medicina generale, sono sempre loro i primi ad incontrare il paziente. Poi i medici della medicina del lavoro, quelli delle commissioni INPS per l’invalidità”.

Il primato europeo
Nonostante le difficoltà da superare siano ancora tante, l'Italia gode comunque di un primato e nel panorama europeo, infatti, si classifica “tra i primi Paesi per il trattamento di questa condizione - afferma Pisana Ferrari, Ceo della European Pulmonary Hypertension Association – in Italia le terapie sono disponibili e rimborsabili. I malati di ipertensione polmonare possono, inoltre, contare su esenzioni per invalidità, reddito, e, da poco, con i nuovi LEA, anche per malattia rara. Infatti con i nuovi LEA, appena approvati, l'ipertensione arteriosa polmonare (una delle forme di IP) sarà esente. Il sistema Italia c’è e funziona. Il problema dell’ipertensione polmonare è che la malattia e i percorsi diagnostici sono poco conosciuti anche tra gli stessi medici. Maggiore conoscenza comporterebbe diagnosi più precoci”.

I progressi e i deficit
In generale, negli ultimi anni, sono stati notevoli i progressi, basti pensare che il gap diagnostico si è dimezzato passando da 2 o 3 anni a uno. “Dal momento in cui esordiscono i sintomi in questi 3 mila soggetti presenti su territorio nazionale, al momento i cui viene fatta la diagnosi definitiva e prescritta una terapia, passa più di un anno – afferma Michele D'Alto, responsabile del centro sull'ipertensione polmonare della cardiologia Sun, Ao Monali di Napoli - Un dato che, seppur migliore rispetto a quelli registrati fino ad alcuni anni fa, è ancora inaccettabile. La mortalità dei pazienti in assenza di terapia alla fine degli anni '80 era del 50% a tre anni, adesso la sopravvivenza è del 75% a 3 anni. Questi dati positivi sono il risultato di diagnosi più precoci e terapie più adeguate. Ma non è ancora abbastanza. Per garantire una risposta capillare di alti standard di cura ora è necessario creare un network tra i Centri, più e meno esperti, su tutto il territorio italiano”. Il problema principale, infatti, è che il paziente ha un esordio della malattia molto aspecifico, “i sintomi sono gli stessi che hanno i pazienti cardiopatici o pneumologici: affanno, assenza di fiato, stanchezza. La diagnosi è complicata, qui subentra la conoscenza del medico”, conclude l'esperto.

Otto armi farmacologiche
Sono circa 3 mila in Italia i pazienti che soffrono della patologia dal “fiato corto”, e in particolare della forma “arteriosa polmonare”. L'ipertensione polmonare, pur essendo una condizione rara e orfana di diagnosi, non lo è di armi per combatterla, “sono 8 quelle farmacologiche – afferma Carmine Dario Vizza, responsabile del centro ipertensione polmonare primitiva e forme associate al Policlinico Umberto I di Roma – Considerato che questi pazienti a livello del vaso polmonare hanno una ridotta produzione di prostaciclina e ossido nitrico (vasodilatatori) e un'aumentata produzione di endotelina (vasocostrittore), i farmaci messi a punto mirano a contrastare queste alterazioni in diversi modi. Ad esempio, di recente approvazione e capostipite della sua categoria, uno “stimolatore della guanilato ciclasi solubile” che stimola, appunto, l'enzima che dovrebbe essere stimolato dall'ossido nitrico”. Esiste poi l'approccio chirurgico, ma vi sono anche 5 diverse forme di ipertensione polmonare: ipertensione arteriosa polmonare, l'ipertensione polmonare da malattie del cuore sinistro, l'ipertensione polmonare secondaria a malattie polmonari, l'ipertensione polmonare tromboembolitica cronica, l'ipertensione polmonare con meccanismi multifattoriali. E' bene, dunque, che lo specialista valuti l'approccio da adottare caso per caso.

Una forma atipica
Una particolare forma che viene trattata in maniera singolare, via chirurgica, è la “tromboembolitica cronica”, in questo caso è come se all'interno dell'arteria polmonare si formasse una sorta di “incrostazione” che va rimossa meccanicamente. “Oggi il 95 per cento di questi pazienti è operabile – afferma Andrea Maria D'Armini, professore di cardiochirurgia, Università degli studi di Pavia, Fondazione Irccs ‘San Matteo’ - Ma qui entra in gioco il fattore ‘età’. Se pensiamo che nel 2016 la metà dei pazienti operati aveva più di 70 anni, è evidente come statisticamente sia facile che a quell’età, pur se tecnicamente operabili, abbiano delle controindicazioni legate ad altre problematiche. Tuttavia, per questi pazienti, è possibile intervenire con la terapia farmacologica”, conclude.
 
Attilia Burke

03 maggio 2017
© Riproduzione riservata

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