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Distrofia muscolare di Duchenne. Italia prima in Ue per assistenza: 13 i centri d'eccellenza


L'Italia si contraddistingue da tutti gli altri Paesi dell'Ue per avere, in media, almeno più del doppio dei centri di assistenza per la diagnosi e trattamento della malattia rara. A seguito della IV giornata mondiale dedicata alla patologia, gli esperti del settore e le associazioni pazienti fanno il punto della situazione e spiegano quali sono i “campanelli d'allarme” e come muoversi nella rete assistenziale

18 SET - Neurologi, pediatri, psicologi, ma anche cardiologi, pneumologi e fisioterapisti: queste alcune delle figure professionali che collaborano tra di loro a formare i team multidisciplinari presenti nei 13 centri italiani per la diagnosi e trattamento della distrofia muscolare di Duchenne. Dopo una serie di incontri e iniziative organizzati in occasione della giornata mondiale dedicata alla malattia rara, a fare il punto della situazione in Italia sono gli esperti del settore.
 
I 13 centri medici dell'Associazione italiana di Miologia (Aim) che svolgono un ruolo chiave nel trattamento della malattia rara, “coprono quasi tutto l'intero territorio italiano - spiega Claudio Bruno, Responsabile Uosd Centro Traslazionale di miologia e patologie neurodegenerative, Istituto Giannina Gaslini di Genova - e coinvolgono nella diagnosi e successivo follow-up della patologia tutta una serie di figure professionali che lavorano in sinergia per riuscire ad individuare i casi di distrofia in modo precoce. Ciò è di fondamentale importanza per l'inizio delle nuove terapie emergenti, ma anche per riuscire a seguire i bambini su tutto il territorio nazionale con gli stessi strumenti di valutazione e intervento. Questo network si inserisce all'interno di una struttura europea con cui si collabora da tanti anni, che è stata anche recentemente certificata e coinvolge molti Paesi dell'Unione europea”.
 
Sono 12 i Paesi che aderiscono allo ERN-NMD (European reference network for rare or low prevalence complex diseases - Neuromuscular disease): Belgio, Bulgaria, Repubblica Ceca, Finlandia, Francia, Germania, Ungheria, Spagna, Svezia, Regno Unito, Paesi Bassi e Italia. Ma la media del numero dei centri di assistenza non è superiore a 4 per ciascun Paese, meno di un terzo di quelli presenti sul territorio nostrano. Un primato, quello italiano, in gran parte riconducibile all'azione delle associazioni pazienti: “L'approccio alla patologia negli ultimi anni è molto cambiato anche grazie alla nascita di associazioni di genitori che hanno fortemente contribuito a sensibilizzare la classe medica per riuscire a fare diagnosi precoci”, sottolinea Bruno.
 
La diagnosi precoce, infatti, gioca un ruolo chiave nel miglioramento non solo della qualità, ma anche dell'aspettativa di vita dei pazienti: “Attualmente la diagnosi avviene in un arco di tempo compreso tra i 3 e i 5 anni: questo è sicuramente qualificabile come ritardo diagnostico - spiega Giuseppe Vita, Professore ordinario di neurologia dell'Università di Messina e direttore Uoc di neurologia e malattie neuromuscolari del Policlinico di Messina - La malattia può essere scovata sin dai primi mesi di vita, ma talvolta il pediatra tende a sottovalutare i piccoli problemi che i genitori possono riferire”. Tuttavia, sarebbe sufficiente “includere un dosaggio del Cpk (creatinfosfochinasi) in un esame di routine per capire se sia il caso o meno di iniziare un vero e proprio iter diagnostico del paziente che può portare poi alla diagnosi di una malattia neuromuscolare”, sottolinea. Il Cpk è un enzima endocellulare che si trova, in particolare, nei muscoli scheletrici, nel cuore, nel cervello, nei polmoni e nel siero. La rilevazione dei livelli di CPK nel sangue serve essenzialmente a valutare il danno muscolare. “Questi bambini sin dalla nascita hanno un Cpk elevato, anche 5 mila o 10 mila unità”, specifica Vita.
 
Ma quali sono i segnali che i genitori non devono ignorare? Ci può già essere qualche “sfumatissimo segno di difficoltà motoria nei primi anni di vita, come una caduta che si ripete nel tempo, piccole difficoltà nei movimenti di tutti i giorni, movimenti fisiologici come il sollevarsi da terra o da accovacciati utilizzando le braccia per assumere la posizione eretta - spiega Gabriele Siciliano, Presidente Aim e professore ordinario di neurologia dell'Università di Pisa - Con il passare del tempo questi segni possono diventare più evidenti: difficoltà nel salire le scale, nel sollevare pesi con gli arti superiori, ma è soprattutto la fase iniziale che, ai fini della diagnosi, dev'essere individuata bene dallo specialista”. Un segnale che può essere già “captato” in culla è rappresentato da un'eccessiva staticità del neonato che non cambia posizione; in realtà, lo sviluppo potrebbe sembrare apparentemente normale fino a 1 anno e mezzo di età, ma è nel momento in cui dovrebbero essere superate una serie di milestone tipiche di quell'età, come iniziare a camminare e a parlare, che si possono osservare le prime difficoltà. In generale i bimbi sono meno mobili e meno partecipi a giochi e attività sociali.
 
La Duchenne, lo si ricorda, è una malattia genetica rara che colpisce un bambino ogni 3.500 ed è prevalentemente maschile poiché il gene “difettoso” è localizzato sul cromosoma X e, mentre nelle femmine il secondo cromosoma X può sopperire (almeno in parte) all'attività di quello che non funziona, nei maschi questa possibilità non esiste. Il gene “malato” è quello che codifica per la proteina funzionale distrofina, fondamentale per la stabilità strutturale dei muscoli scheletrici, diaframmatici e cardiaci.
 
“La distrofia di Duchenne molto spesso è inaspettata perché la mamma può essere portatrice sana del gene “difettoso” - spiega Filippo Buccella, direttore della ricerca e clinical network di Parent Project Onlus - E' importante che si intervenga presto perché c'è tanto da fare, specialmente con le associazioni pazienti perché si inizia un percorso in cui la famiglia viene presa per mano e accompagnata per tutta la vita dei ragazzi. C'è tanto da fare da un punto di vista di integrazione sociale, in termini di inserimento lavorativo dei pazienti, di scolarizzazione, di supporto psicologico anche per le famiglie e, soprattutto, noi lavoriamo anche nell'ambito della ricerca e c'è tanto da fare anche dal punto di vista della ricerca - sottolinea Buccella - Ci sono oggi forse più di 20 approcci di ricerca promettenti, alcuni sono già arrivati a destinazione, abbiamo già qualche freccia nel nostro arco, qualche farmaco disponibile, quindi si tratta semplicemente di continuare a lavorare in questa direzione”.

18 settembre 2017
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