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Alzheimer. Nuove speranze di cura da una ricerca sulla perdita dell'olfatto


Il sistema olfattivo è il primo che viene compromesso nella malattia, ma è anche quello che può essere più facilmente recuperato. Un gruppo di ricerca statunitense spiega come. E spera che la scoperta possa essere usata per rallentare il decorso del morbo.

02 DIC - Notoriamente, la perdita dell’olfatto è una delle prime disabilità causate dal morbo di Alzheimer, una malattia che colpisce circa il 5% delle persone con più di 60 anni, 500 mila persone in Italia e oltre 26 milioni nel mondo. Ma oggi, questo sintomo può essere combattuto. O almeno questo è quello che sono riusciti a fare alcuni ricercatori della Case Western Reserve University ​​in un modello murino della malattia. Lo studio, pubblicato su Journal of Neuroscience, confermerebbe che sono le piccole placche di proteina beta amiloide a causare la disabilità, le stesse che poi portano alla malattia neurodegenerativa.
"La ricerca indica che possiamo usare l'olfatto per determinare se qualcuno potrebbe avere il morbo di Alzheimer. Così possiamo cominciare i trattamenti quando si ha questo primo sintomo, invece di aspettare fino a quando arrivano i problemi di apprendimento e memoria", ha detto Daniel Wesson, docente di Neuroscienze alla Case Western Reserve e coordinatore della ricerca. "Possiamo anche utilizzare l'olfatto, per vedere se le terapie funzionano."
 
I ricercatori sperano di poter usare questa scoperta per rallentare il decorso della malattia. "Pensiamo che la comprensione di come avviene questa perdità dell’olfatto possa fornire alcuni indizi su come rallentare questa malattia", ha spiegato Wesson. I ricercatori hanno infatti scoperto che basta una piccola placca formata da proteine beta amiloidi - troppo piccola anche solo per essere vista nelle scansioni cerebrali – a provocare la perdita dell'olfatto in modelli murini. Questo particolare fa dei disturbi dell’olfatto i principali sintomi per il riconoscimento precoce della malattia.
Le placche di proteine sembrano infatti formarsi nelle parti del cervello relative a questo senso, molto prima che abbia inizio l’accumulo di beta amiloidi nelle altre parti dell’organo associate a memoria e coordinazione. Quando il livello di queste proteine aumenta troppo nel bulbo olfattivo, infatti, questo diventa ipoattivo. Era come se i topi, a questo livello di sviluppo della malattia, nonostante passassero molto più tempo a odorare, non fossero più in grado di riconoscere o ricordare i profumi. Questo è esattamente quello che succede anche ai malati di Alzheimer.
I ricercatori hanno però osservato che seppure il sistema olfattivo fosse compromesso, il resto del sistema nervoso del topo risultava ancora totalmente funzionante, compreso l’ippocampo, quella piccola zona del cervello che è legata alla memoria. “Ciò dimostra la particolare vulnerabilità dell’olfatto alla malattia”, ha spiegato ancora il ricercatore.
 
Ma è proprio riconoscere questo particolare sintomo che ha dato ai ricercatori l’idea che potrebbe aiutare nella lotta all’Alzheimer. Come? Il sintomo, a questo stadio di sviluppo della patologia, sembra poter essere facilmente rimosso. Ai topi è infatti stato somministrato un particolare composto sintetico (agonista del liver x receptor) capace di eliminare le proteine beta amiloidi. Dopo due settimane di trattamento con questo farmaco, i topi avevano ricominciato a processare correttamente gli odori. Se si sospendeva il trattamento per una settimana, la disabilità si manifestava di nuovo.
Un farmaco di questo tipo dunque, se usato al momento giusto, ovvero quando la malattia non è ancora sviluppata e l’unico sintomo è la perdita dell’olfatto, potrebbe essere usato per rallentare la progressione del morbo di Alzheimer. Per questo Wesson e il suo team sta oggi cercando di capire come si sviluppa la malattia all’interno del cervello, per capire come muoversi per diagnosticare e curare per tempo i pazienti.

02 dicembre 2011
© Riproduzione riservata

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