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Artrite reumatoide. Indagine su come ha cambiato la vita ai 300 mila malati italiani


Il 93% accusa la malattia di aver inciso profondamente sugli stili di vita. Il 23% perde più di tre giorni lavorativi al mese a causa dei dolori alle articolazioni e per tutti i gesti più semplici diventano impossibili. Più colpite le donne, ma le terapie funzionano nel 50% dei casi.

31 GEN - Sono circa 300mila i casi di artrite reumatoide in Italia, una patologia altamente debilitante che colpisce in modo maggiore le donne (soprattutto in età fertile, tra i 35 e i 40 anni). L’impatto della malattia è purtroppo alto, perché il dolore alle articolazioni, la rigidità mattutina, la stanchezza, la fatica di affrontare la giornata con l’eventualità di una disabilità permanente possono comportare cambiamenti significativi nello stile di vita: per il 93% dei pazienti colpiti da artrite reumatoide, questa incide sulla qualità di vita e per l’85% sulla capacità di compiere i più semplici gesti quotidiani, come aprire una bottiglia, svolgere attività domestiche, salire le scale, vestirsi o lavarsi.

Questo quanto emerge da un sondaggio nazionale condotto online dall’Associazione Nazionale Malati Reumatici (ANMAR), grazie al supporto di Bristol-Myers Squibb. Il questionario, che conteneva numerose domande, è stato distribuito in versione cartacea a 16 centri di cura della Penisola italiana, ed è inoltre stato diffuso online grazie ad un annuncio sul sito stesso di ANMAR e alla pagina Facebook dell’Associazione. Per l’inchiesta sono state elaborate 533 risposte (293 via internet e 240 provenienti dalle strutture).

L’artrite reumatoide inizialmente si caratterizza per il dolore alle articolazioni e, progredendo, tende a diventare invalidante. La patologia in particolare ha pesanti ripercussioni sulla qualità della vita per il paziente e per la sua famiglia, visto che comporta perdita di autonomia e dunque necessità di sostegno da parte di una persona vicina.
A ciò si accompagna il rischio di perdere l’occupazione. Entro 10 anni dalla comparsa dei sintomi, la metà dei pazienti non è più in grado di svolgere un lavoro a tempo pieno. Per l’84% dei pazienti infatti, la malattia influisce sull’attività lavorativa: il 23% perde più di 3 giorni lavorativi al mese quando il dolore o il disagio sono fuori controllo.

La diagnosi precoce è divenuta una tappa fondamentale nella strategia terapeutica e i malati ne sono perfettamente consapevoli. Il 93% di coloro che hanno risposto al questionario ritiene che campagne informative e attività di sensibilizzazione potrebbero facilitare la diagnosi precoce e la migliore gestione della malattia. Esiste una sorta di “finestra” entro la quale un intervento aggressivo dei primi sintomi può determinare un risultato ottimale nel lungo periodo.
Inoltre, sono oggi disponibili terapie in grado di alleviare i sintomi e di arrestare la progressione del danno alle articolazioni. In particolare, i farmaci biologici possono modificare radicalmente la qualità di vita, in quanto, con il loro uso precoce, oggi è possibile ottenere la remissione della malattia. Questi medicinali “normalizzano” il processo infiammatorio e la tengono sotto controllo nel tempo.

Una corretta impostazione terapeutica è dunque il segreto. Un trattamento corretto può essere ottenuto soltanto attraverso una diagnosi precoce nelle prime 8-12 settimane dall’inizio dei sintomi e una rigorosa valutazione della risposta alle terapie. "In questo modo si arriva oggi ad ottenere una stabile remissione della malattia in oltre il 50% dei casi", hanno fatto sapere dall'ANMAR.
La valutazione della terapia può essere effettuata attraverso la compilazione di una semplice scheda durante le visite di controllo, dunque i pazienti sono in grado di misurare autonomamente i miglioramenti nel tempo. Questo monitoraggio costante favorisce la riduzione della “disabilità” e il ritorno ad una vita di relazione normale. Con l’ulteriore vantaggio che i pazienti si sentono “protagonisti” nel controllare l’evoluzione della patologia.

Chiaramente però è il medico specialista il vero punto di riferimento con cui i pazienti desiderano condividere la scelta della terapia e le sue implicazioni, nonché i dubbi e le paure relativamente agli sviluppi futuri della patologia. Fondamentale però è anche il ruolo di Internet. In caso di dubbi sulla malattia, infatti ben il 65% dei malati che hanno risposto al questionario online si rivolge a siti web, forum online e social network. Non tutti coloro che hanno partecipato al sondaggio appartengono ad un’associazione di pazienti, ma ben il 23% (quasi uno su 4) di quelli che hanno risposto all’inchiesta ha dichiarato che vorrebbe farne parte in futuro.
 
L.B.

31 gennaio 2012
© Riproduzione riservata

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