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Coronavirus. L’epidemia sembra sotto controllo in Cina ma dilaga nel resto del Mondo. Il punto

di C.d.F

Se il numero di casi in Cina inizia ad essere contenuto, esso è in aumento nel resto del mondo. Si discute attualmente delle misure necessarie per prevenire la diffusione negli Stati Uniti e ridurre il contagio in altri paesi, nel frattempo sono in corso oltre 100 studi clinici per valutare l’efficacia di farmaci noti e nuove molecole sui pazienti affetti da COVID-19

02 MAR - Per due settimane, i nuovi casi confermati e sospetti segnalati quotidianamente in Cina hanno visto una tendenza al ribasso. Dopo questa fase di diminuzione, nella provincia di Hubei, nel corso degli ultimi due giorni si è verificato un nuovo aumento di casi confermati. Il significato di questo nuovo incremento è attualmente in corso di indagini da parte dell’Oms. Tuttavia Xinhuanet, filiale della più importante agenzia di stampa in Cina, ha riportato il 2 marzo le parole di Mi Feng, un portavoce della National Health Commission, che rassicura spiegando come il rapido aumento dell'epidemia a Wuhan sia stato contenuto e le epidemie locali a Hubei fuori Wuhan siano sotto controllo.

Detto questo, mentre in Cina la situazione sembrerebbe migliorare, nel resto del mondo il numero di casi e di paesi coinvolti aumenta quotidianamente. Ad oggi sono 58 gli Stati colpiti, in misura più o meno ingente, al di fuori della Cina, per un totale di 7.169 casi confermati (dati Oms aggiornati al 1 marzo ore 10:00) e dal 28 febbraio l’Oms ha modificato il livello del rischio di diffusione e di impatto di COVID-19 a livello globale, da alto a molto alto.

Nonostante questa diffusione, i dati e le considerazioni sull’epidemiologia dell’infezione, restano sostanzialmente gli stessi riportati in un nostro articolo del 25 febbraio. Se al 1 marzo in Cina si calcola un tasso di mortalità sui casi totali del 3,5% (79.968 casi confermati, 2.873 decessi), al di fuori della Cina la percentuale diminuisce e si aggira intorno all’1,4% (7.169 casi confermati e 104 decessi).
 
I singoli studi condotti su alcune centinaia di pazienti riportano poi altri livelli, leggermente più alti o più bassi, in base ai criteri di inclusione nello studio. Una ricerca pubblicata  il 28 febbraio dal New England Journal of Medicine (NEJM) calcola ad esempio un tasso di mortalità dell’1,4% prendendo in considerazione 1.099 pazienti cinesi. Gli autori di un editoriale di accompagnamento allo studio, commentano che “se si presume che il numero di casi asintomatici o minimamente sintomatici sia più volte superiore al numero di casi segnalati, il tasso di mortalità potrebbe arrivare a essere considerevolmente inferiore all’1%”. In questo caso gli effetti di COVID-19 sarebbero simili a quelli di una grave influenza stagionale o di un'influenza pandemica (simile a quelle del 1957 e del 1968).

Sempre nell’editoriale, si conferma un tasso netto di riproduzione dell’infezione leggermente superiore a 2. Bisogna naturalmente aspettare che il tasso diventi inferiore a 1, per parlare di un’effettiva diminuzione della diffusione della malattia. È però interessante anche seguire i dati di Worldometer, un sito gestito da statistici e ricercatori che offre un aggiornamento quotidiano sull'andamento dell'epidemia in termini di nuovi casi, decessi, casi in corso e casi totali. Tra i diversi parametri, viene calcolato anche il fattore di crescita quotidiano del numero di casi, quindi il rapporto tra nuovi casi del giorno e nuovi casi del giorno prima. Da circa 15 giorni ci aggiriamo intorno ad un fattore di crescita 1 (poco più o poco meno), che aumenta leggermente se si escludono i casi cinesi (il fattore di crescita globale il 1 marzo era di 0.99, senza la Cina invece dell’1,25).

È evidente che il peso dei casi cinesi è in diminuzione anche se assorbe ancora l’89% del totale dei casi di COVID-19 nel mondo. Di tutti i casi restanti (l’11%), sparsi per il mondo, l’Italia rappresenta attualmente il 17,5%.
 
In una conferenza stampa che si è tenuta a Roma con i rappresentanti di Ue, Oms Europa ed Ecdc, la settimana scorsa, si è parlato della possibilità concreta che il virus si diffonda in altri paesi europei, creando una situazione analoga a quella italiana e paventando un rischio di diffusione rapida negli Stati Uniti, l’editoriale del NEJM suggerisce delle misure di contenimento che ricordano ciò che in parte si cerca di fare anche in Italia: bisognerebbe passare “dal contenimento a strategie di mitigazione come il distanziamento sociale al fine di ridurre la trasmissione. Tali strategie potrebbero includere l'isolamento delle persone malate (incluso l'isolamento volontario a casa), la chiusura delle scuole e il telelavoro, ove possibile”.

D’altra parte, uno studio pubblicato sulla rivista JAMA il 28 febbraio, mette in dubbio l’efficacia di alcune delle misure di quarantena adottate fin ora. Di sicuro esse devono essere messe in atto con criterio, perché altrimenti potrebbero essere più dannose che efficaci: “le quarantene come quella imposta ai passeggeri e all'equipaggio della Diamond Princess hanno aumentato la trasmissione e provocato centinaia di infezioni”, per esempio. “Se eseguite correttamente, le quarantene possono ridurre la trasmissione, ma i diritti umani devono essere rispettati e in un'epoca di connettività globale può essere difficile, se non impossibile, attuare misure di quarantena efficaci”, secondo gli autori.

A che punto siamo nello sviluppo di farmaci e vaccini
Per poter intervenire efficacemente, in termini di misure preventive, quarantena, e anche nello sviluppo di farmaci e vaccini, bisogna conoscere il virus e il suo meccanismo di azione. Il periodo di quarantena ad esempio, deve basarsi sul periodo di incubazione del virus, che, secondo le stime di Oms e CDC, varia da 1 a 14 giorni, con una mediana di 5-6 giorni, ma può raggiungere addirittura i 24 giorni.

L’articolo del NEJM fornisce anche un altro dato significativo: il lasso di tempo che intercorre tra l’inizio della malattia e il ricovero in ospedale (quindi il tempo necessario perché la malattia diventi grave), varia in media dai 9 ai 12,5 giorni. Questo periodo di tempo rappresenta una finestra nella quale si ha l’opportunità di intervenire clinicamente.

La terapia messa in atto è simile a quella di altre polmoniti virali e consiste principalmente in cure di supporto e integrazione di ossigeno quando necessario. Ci sono poi diversi farmaci in corso di sperimentazione. Tra questi l’antivirale lopinavir-ritonavir, interferone-1β, l'inibitore dell'RNA polimerasi remdesivir, la clorochina e in Cina anche l’antivirale favilavir. Una volta che saranno disponibili, verrà studiata anche l’efficacia, per un intervento precoce, delle globuline iperimmuni provenienti da persone guarite, da somministrare per via endovenosa.
 
In totale, sono attualmente in corso oltre 100 studi clinici. È in corso anche un intenso sforzo di ricerca per lo sviluppo di un vaccino: i candidati vaccinali in fase di sviluppo sono attualmente 11 e, secondo l’editoriale, i primi candidati entreranno nella fase 1 degli studi all'inizio della primavera.
 
C.d.F

02 marzo 2020
© Riproduzione riservata

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