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Distrofia facio-scapolo-omerale. Venti anni di ricerca smentiti da uno studio italiano


Quella si pensava fosse la "firma genetica" della malattia non è sufficiente a identificarla". Se lo fosse stata si sarebbero dovuti contare quasi 2 milioni di persone malate solo in Italia, mentre i pazienti censiti sono soltanto tremila. La scoperta finanziata da Telethon.

12 APR - Le basi genetiche della distrofia facio-scapolo-omerale scoperte dall’inizio degli anni Novanta ad oggi potrebbero essere errate. La patologia, caratterizzata da debolezza muscolare progressiva che interessa in particolare i muscoli della faccia, delle spalle, delle braccia e, in alcuni casi, anche degli arti inferiori, non sarebbe infatti causata dall’alterazione genetica che fino ad oggi era ritenuta responsabile dei sintomi, dato che questa è presente in molte più persone rispetto agli effettivi pazienti. La scoperta di un team dell’Università di Modena e Reggio Emilia, finanziata grazie a Telethon, è stata pubblicata sull'American Journal of Human Genetics, e lo studio di cui è frutto ha visto la partecipazione di tredici centri clinici di riferimento per questa patologia, ancora priva di una terapia specifica.
 
Analizzando il Dna di 253 pazienti presenti nel Registro italiano per la distrofia facio-scapolo-omerale i ricercatori hanno infatti messo a confronto il genoma delle persone affette dalla patologia con quello di oltre 800 individui sani di origine italiana e brasiliana. “Il risultato è stato sorprendente: in circa il 3% degli individui sani abbiamo trovato una delezione di D4Z4, fino a quel momento ritenuta la principale causa della patologia, e in un terzo di questi anche la compresenza delle varianti corresponsabili che nel tempo erano state identificate”, ha spiegato Rossella Tupler, ricercatrice che ha coordinato lo studio. “Questo significa che quella che fino ad oggi abbiamo ritenuto essere la "firma genetica" della malattia non è sufficiente a identificarla". Se fosse stata infatti questa serie di alterazioni a provocare la particolare distrofia, si sarebbero dovuti contare quasi 2 milioni di persone malate solo in Italia: i pazienti censiti, invece, sono soltanto tremila. Una scoperta che rimette in discussione tutto ciò che si sa sulla patologia.

La storia della ricerca dei meccanismi della malattia, che in genere comincia a manifestarsi tra i 20 e i 30 anni, parte da molto lontano. Circa una ventina di anni fa era stato dimostrato come in buona parte dei pazienti mancasse una porzione del cromosoma 4 (4q35), che contiene una serie di ripetizioni di una precisa sequenza di Dna, ciascuna delle quali presenta una copia del gene DUX4: per "contare" il numero di queste ripetizioni e consentire così la diagnosi anche dal punto di vista genetico, negli anni successivi era poi stato messo a punto un test, che era dunque capace di capire se l’alterazione era presente o no. Nel 2002 fu proprio Rossella Tupler, insieme ai suoi collaboratori, grazie a un finanziamento Telethon, aveva poi dimostrato come questa regione, ribattezzata D4Z4, regolasse altri geni, come una sorta di "interruttore": gli scienziati ipotizzarono per questo che la sua parziale perdita portasse a una mancata regolazione dell'attività di geni importanti. 
 
Eppure, analizzando il Dna dei pazienti, i ricercatori hanno negli anni successivi riscontrato che non tutti gli individui che presentavano una perdita di D4Z4 manifestavano i sintomi della malattia. Hanno quindi ipotizzato che l'insorgenza dei sintomi dipendesse dalla compresenza di altre alterazioni, localizzate anche in altre zone del genoma: sono state così identificate una serie di varianti genetiche "corresponsabili". Nel 2010 è stato pubblicato uno studio che mostrava come particolari varianti genetiche stimolassero l'espressione di DUX4, un gene normalmente "spento". Sulla base di questi risultati si era dunque ipotizzato che l'anomala attivazione di DUX4 risultasse tossica per il muscolo, portando così alla malattia. Tuttavia rimanevano troppe eccezioni per spiegare con un modello universale la manifestazione dei sintomi della distrofia facio-scapolo-omerale: esemplare in questo senso il caso di due gemelli omozigoti - descritto proprio da Tupler nel 1998 sul Journal of Medical Genetics - che pur condividendo l'intero patrimonio genetico erano l'uno in carrozzina e l'altro completamente privo di sintomi.
 
 
Così i ricercatori hanno voluto vederci chiaro, portando avanti questa ricerca. “Il nostro studio, frutto del lavoro di oltre tre anni, non vuole certo rinnegare quanto dimostrato finora, ma piuttosto porre l'attenzione sulla necessità di affinare la definizione delle basi genetiche di questa malattia, che evidentemente non sono ancora state chiarite del tutto”, ha aggiunto la ricercatrice. “La diagnosi genetica ha infatti ripercussioni importanti sulla vita dei pazienti e sulle loro scelte future, così come sulla valutazione della prognosi da parte dei medici che li seguono: è quindi fondamentale che sia quanto più accurata e predittiva possibile”.
I ricercatori infatti non escludono che alla luce di questi risultati alcune diagnosi effettuate in passato vadano decisamente riviste, e la scoperta potrebbe avere importanti ripercussioni anche per le diagnosi prenatali delle famiglie considerate a rischio. Ma soprattutto, di sicuro, bisognerà fare luce sulle vere cause della patologia.

12 aprile 2012
© Riproduzione riservata

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