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Coronavirus. Le sperimentazioni devono essere rigorose anche in emergenza. Perché un farmaco sbagliato può anche uccidere

di Laura Amato e Marina Davoli

Molti dei dati attuali sui potenziali benefici di diversi farmaci in sperimentazione provengono da studi di laboratorio. Nella maggior parte dei casi, i risultati positivi degli studi di laboratorio non si traducono poi in benefici clinici. Altri trattamenti sono stati valutati su popolazioni di pazienti, ma non in malati di Covid-19. Oppure i risultati provengono da studi randomizzati ma non condotti in modo rigoroso e con dimensione del campione molto piccola. E tutto ciò può diventare molto pericoloso

15 APR - Di fronte a una pandemia globale la comunità scientifica, i medici, le autorità regolatorie e i politici hanno la responsabilità di decidere e di reagire, ma la necessità di fare comunque qualcosa e di essere rapidi può essere pericolosa. La pandemia è un evento davvero spaventoso. Le persone contagiate possono sviluppare una forma grave della malattia che richiede un ricovero in ospedale e che, nei casi più gravi, può portare alla morte. Non c'è dunque da stupirsi che i cittadini possano chiedere: esiste un farmaco che può prevenire la malattia? Ditemelo e lo prenderò. Se mi contagiassi, c’è un farmaco che potrebbe contrastare la progressione della malattia? Prescrivetemelo. Ci sono diversi modi per rispondere a richieste del genere. Tra queste, il ricorso a una serie di farmaci approvati dalle agenzie regolatorie che possono avere effetti antivirali e trattamenti con plasma ottenuto da donatori che hanno contratto il virus, sono guariti ed hanno quindi sviluppato anticorpi.
 
Come decidere a quali trattamenti ricorrere? O, ancor prima, se utilizzarli? Per prendere decisioni del genere, dovremmo essere in grado di valutare la robustezza e l’attendibilità delle prove disponibili, per distinguere quelle affidabili da quelle che non lo sono. Dovremmo essere in grado di rispondere a domande come queste: se studi di laboratorio dimostrano che un farmaco può inibire il virus, sappiamo come funzionerà questo stesso farmaco quando sarà somministrato ai pazienti? Le prove disponibili sono di buona qualità? Quanto solide sono le nostre certezze se i dati di efficacia di un farmaco provengono sì, da uno studio pubblicato su un’importante rivista scientifica, ma in cui il miglioramento è stato registrato solo in pochi pazienti? Cosa possiamo pensare di uno studio i cui autori sostengono, a loro discrezione, che un certo numero di pazienti a cui hanno somministrato un farmaco ha avuto risultati migliori rispetto allo stesso numero di malati che non l’hanno ricevuto? Che diremmo allora degli studi randomizzati in cui è il caso a determinare l’assegnazione dei pazienti al trattamento?
 
Tuttavia, potrebbe dire qualcuno, perché medici e pazienti non dovrebbero provare queste terapie? Dopo tutto, potrebbero funzionare. Cosa abbiamo da perdere? A dire il vero, molto.
Innanzitutto, tutti i farmaci hanno effetti avversi, spesso gravi. In poche parole, potrebbero fare più male che bene. Nel caso di un paziente con Covid-19 in condizioni critiche in ventilazione artificiale, un particolare farmaco potrebbe peggiorare la situazione piuttosto che migliorarla.
 
Per proteggere i cittadini da decisioni sbagliate, un gruppo internazionale di ricercatori e clinici che si occupano di valutazione dei risultati dei trattamenti in medicina ha sviluppato un sistema di valutazione dell’affidabilità delle prove. Si tratta del gruppo di lavoro GRADE che ha iniziato a lavorare venti anni fa mettendo a punto un framework che ordina le prove distinguendole tra quelle con certezza elevata (ulteriori ricerche difficilmente possono cambiare i risultati sulla stima dell’effetto), certezza moderata (ulteriori ricerche potrebbero modificare i risultati sulla stima dell’effetto), certezza bassa (sono necessarie ulteriori ricerche ed esse potrebbero modificare sostanzialmente i risultati sulla stima dell’effetto), certezza molto bassa (la stima dell’effetto è molto incerta). La metodologia GRADE è attualmente utilizzata da oltre 110 organizzazioni in tutto il mondo ed è riconosciuta essere il metodo migliore e più trasparente per giudicare l'affidabilità delle prove sugli effetti dei trattamenti.

Applicando il GRADE a tutti i trattamenti antivirali proposti per il trattamento di Covid-19, scopriamo che le prove, ad oggi, sono di qualità bassa o molto bassa. Quando parliamo di prove di qualità molto bassa ci riferiamo essenzialmente a dati che non possono darci un’idea degli effetti sulla salute che può promettere quell’intervento. Il trattamento può funzionare o forse no. Semplicemente non lo sappiamo. A questo proposito, come centro GRADE italiano, presso il Dipartimento di Epidemiologia del SSR della Regione Lazio, stiamo lavorando ad una revisione sistematica sull’efficacia dei trattamenti farmacologici per il trattamento delle persone affette da COVID-19, che si aggiornerà costantemente nel tempo con la pubblicazione dei risultati di nuovi studi clinici.

Perché le prove disponibili per i trattamenti suggeriti per la Covid-19 sono di qualità molto bassa? Molti di questi dati provengono da studi di laboratorio. Nella maggior parte dei casi, i risultati positivi degli studi di laboratorio non si traducono poi in benefici clinici. Altri trattamenti sono stati valutati su popolazioni di pazienti, ma non in malati di Covid-19. Fino ad oggi, i dati disponibili riguardanti il trattamento della Covid-19 provengono da studi in cui l’assegnazione dei pazienti ai trattamenti non è stata casuale (e quindi le differenze osservate potrebbero non essere dovute all’effetto del farmaco ma all’aver destinato l’intervento oggetto di studio a pazienti più giovani o con un numero inferiore di comorbilità) oppure i risultati provengono da studi randomizzati ma non condotti in modo rigoroso e con dimensione del campione molto piccola.
 
Un esempio è lo studio pubblicato sul New England Medical Journal sull’uso compassionevole di remdesivir nell’infezione da Covid-19, uno studio senza gruppo di controllo, su pochi pazienti e tra gli autori anche persone impiegate nell’industria produttrice del farmaco. Forse anche il termine compassionevole andrebbe rivisto, come suggerisce, in un’intervista sul NYT, Andrè Kalil, della University of Nebraska Medical Center e Principal Investigator di un altro studio in corso sul remdesivir, secondo cui “c’è poco di compassionevole nel dare un farmaco che può potenzialmente uccidere”.
 
Un esempio tipico dei rischi insiti nell’utilizzare interventi la cui certezza è molto bassa è rappresentato dall’associazione idrossiclorochina e azitromicina. Infatti sia l'idrossiclorochina che l'azitromicina sono associate ad alterazioni nell'elettrocardiogramma indicative di aritmie cardiache potenzialmente fatali. È un caso in cui il tentativo di fare di più potrebbe portare a risultati potenzialmente letali. Le stesse società scientifiche di cardiologia, l’American Heart Association, l’American College of Cardiology e la Heart Rithm Society hanno pubblicato un documento congiunto in cui avvertono dei gravi rischi che l’assunzione, soprattutto congiunta, dei due farmaci possa comportare per malati già in condizioni critiche.
Va anche considerato che esistono popolazioni di pazienti che hanno davvero bisogno del farmaco: prove di alta qualità mostrano l’efficacia dell’idrossiclorochina nella gestione di malattie immunitarie e reumatologiche. La corsa all’acquisto di questo medicinale da parte di persone che pensavano di poterlo utilizzare per la profilassi della Covid-19 ha messo in grande difficoltà i malati reumatologici che in molti casi hanno rischiato di rimanere senza scorte.

Pur nell’emergenza, al fine di evitare di esporre le persone a potenziali danni anche gravi, le varie ipotesi di trattamento dovrebbero essere valutate in studi rigorosi, proprio per studiare ciò che è incerto, perché investire per studiare quello di cui già si è sicuri è invece uno spreco di risorse.
 
La domanda potrebbe essere, se ai pazienti non offriamo dei farmaci, anche quelli per cui abbiamo solo prove di qualità molto bassa, non li stiamo abbandonando al loro destino? Sicuramente no. Il sistema sanitario può offrire una terapia di supporto, interventi per i quali disponiamo di solide prove di efficacia. Per i pazienti con polmonite grave ma non critica si somministrano fluidi per via endovenosa, antipiretici per ridurre la febbre e ossigeno. Per i pazienti in condizioni critiche abbiamo interventi aggiuntivi tra cui farmaci per sostenere la pressione sanguigna e ventilatori per chi non è in grado di respirare autonomamente. In assenza di prove certe la scelta più etica è inserire pazienti nei trial in corso invece di somministrare farmaci di cui non conosciamo il profilo di beneficio/rischio. Quando i politici e gli enti regolatori formulano raccomandazioni che non considerano in modo sufficientemente accurato le prove disponibili, rischiano di causare danni ai malati e conseguenze sociali ancora maggiori, tradendo in definitiva la fiducia dei cittadini di cui sono responsabili.
 
Fortunatamente abbiamo esempi di azioni regolatorie che vanno nella giusta direzione. L’Agenzia italiana del farmaco (AIFA) ha istituito un percorso trasparente per l'uso di medicinali fuori indicazione, nel cui contesto, la comunicazione del rischio associato alle terapie sperimentali è molto importante. Infine, è altrettanto importante ricordare che nessun metodo GRADE e nessuna revisione sistematica per quanto rigorosa possa essere, potrà mai sostituire il bisogno di studi primari di qualità.
 
Ci auguriamo che questo contributo aiuti a capire l’importanza della sperimentazione clinica anche in fase di emergenza. Se non ci fossimo riuscite vi invitiamo a visitare il sito della Biblioteca Alessandro Liberati della Regione Lazio che ha attivato una sezione specifica sia per gli operatori che per i cittadini, proprio per rispondere a domande come questa.
 
Laura Amato e Marina Davoli
Centro GRADE Italiano, Dipartimento di Epidemiologia del SSR, Regione Lazio
 
Si ringraziano i co-chair del gruppo GRADE, Gordon Guyatt e Holger Schunemann per il contributo al primo draft di questo testo e Luca De Fiore e Antonio Addis per i commenti al testo finale.

15 aprile 2020
© Riproduzione riservata

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