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Malattia di Pompe: l’importanza di una diagnosi precoce

di C.d.F.

Patologia rara e poco conosciuta, la malattia di Pompe colpisce una persona su 40.000/50.000, con un impatto importante sull’aspettativa di vita. Dal 2006 è stato approvato un farmaco che permette di rallentare il decorso della malattia, è però fondamentale una diagnosi precoce al fine di limitare il danno muscolare, che rappresenta la principale manifestazione clinica della malattia.

04 GIU - Una diagnosi tempestiva può salvare la vita. È vero per le malattie più note e diffuse, come tumori e aneurismi, ed è altrettanto vero per le malattie rare e poco conosciute che quindi vengono, di solito, diagnosticate con difficoltà. Ne è un esempio la malattia di Pompe, la prima patologia da accumulo lisosomiale identificata come tale. Fu descritta per la prima volta nel 1932 e, 30 anni dopo, se ne comprese l’eziologia: l’accumulo di glicogeno, nei lisosomi, degli organelli che fungono da “centro di riciclaggio” delle cellule. Nelle cellule, in particolare nelle cellule muscolari, il glicogeno viene degradato nella sua componente principale, il glucosio, da un enzima chiamato alfa-glucosidasi acida (GAA), e questa attività avviene nei lisosomi.

I pazienti affetti da malattia di Pompe presentano delle mutazioni, più o meno estese, in entrambi i geni che codificano l’enzima. Si tratta quindi di una patologia autosomica recessiva, che colpisce circa una persona su 40.000/50.000, con delle variazioni in base all’etnia.
Le persone, che in Italia hanno avuto una diagnosi di malattia di Pompe, sono circa 300.

Sono state identificate centinaia di mutazioni associate alla patologia, e nei pazienti essa si manifesta e progredisce in modo diverso, proprio in base al genotipo e quindi al conseguente grado di carenza dell’attività enzimatica.

La forma più grave della patologia è quella infantile classica (Infantile Onset Pompe Disease - IOPD). I sintomi si manifestano nei primi mesi dopo la nascita e includono difficoltà ad aumentare di peso e incapacità di crescere ad un ritmo normale. La condizione può causare debolezza muscolare, cardiomiopatia ipertrofica, diminuzione del tono muscolare, ingrossamento del fegato, problemi respiratori, infezioni polmonari, problemi di alimentazione e problemi di udito. Se non viene trattata tempestivamente, in genere risulta fatale nel primo anno di vita. C’è poi un’altra forma, non classica, che si manifesta sempre durante l’infanzia, caratterizzata principalmente da debolezza muscolare dei cingoli. La progressione è più lenta, ma porta comunque a dipendere dalla sedia a rotelle e dalla ventilazione assistita e ad una ridotta aspettativa di vita.

I due terzi dei pazienti sperimentano invece una forma a esordio tardivo (Late Onset Pompe Disease - LOPD), i cui sintomi possono presentarsi sia alla fine dell’infanzia, durante l’adolescenza e anche in età adulta, sono: fatica eccessiva, difficoltàà a svolgere delle semplici attività giornaliere come alzarsi dalla sedia o salire le scale, mal di testa mattutino e sonnolenza durante il giorno a causa delle difficoltàà respiratorie che si verificano durante la notte (apnea notturna), respiro affannoso, a causa della debolezza del diaframma.
In genere, più tardi si manifesta la malattia, più lentamente progredisce.

Solo il 25% dei neurologi, di fronte ai sintomi, sospetta della malattia di Pompe

I sintomi sono dovuti al fatto che i muscoli non ricevono il glucosio, quindi l’energia di cui hanno bisogno per la loro attività, essi sono anche caratteristici di altre patologie, magari sempre rare, ma più conosciute, come le distrofie muscolari o le miopatie. In effetti, un’indagine condotta tra medici di Regno Unito, Francia, Germania, Belgio, Paesi Bassi, Italia e Spagna mostra che solo il 48% degli specialisti neuromuscolari e il 25% dei neurologi, trovandosi di fronte a questi sintomi, sospetta della malattia di Pompe. Il tempo medio per la diagnosi a partire dalla comparsa dei sintomi negli adulti è ancora di 7-10 anni. È però di fondamentale importanza, come dicevamo, effettuare una diagnosi tempestiva perché il danno muscolare non diventi irreversibile, sia nelle manifestazioni tardive, sia in quelle infantili.

Come identificare questa patologia e distinguerla dalle altre?
Il primo semplice ed economico test diagnostico è possibile farlo con alcune gocce di sangue posizionate su una apposita cartoncino (Dry Blood Spot -DBS) che permette di fare la valutazione dell’attività enzimatica della GAA. Una volta eseguito questo semplice test ed il paziente presenta un livello enzimatico sotto il 30-35% dell’attività normale media, per confermare la diagnosi si procede all’analisi molecolare (genetica) che confermerà o meno la diagnosi.
 
Prima di effettuare l’analisi ematologica (DBS), che è ribadiamo, è un test ematologico semplice ed economico, bisogna naturalmente effettuare un esame obiettivo per comprendere a cosa è dovuta la debolezza del paziente e indagare le abitudini legate al sonno del soggetto. Una volta definita la diagnosi differenziale di debolezza muscolare, per confermare la diagnosi può essere utilizzata una serie selezionata di test clinici e di laboratorio, come l’analisi dei livelli serici di creatina chinasi (CK o CPK), i cui livelli aumentano quando le cellule muscolari o cardiache sono danneggiate, la valutazione dei livelli di alanina aminotransferasi (ALT), aspartato aminotransferasi (AST), e lattato deidrogenasi (LDH), anch’essi indicatori di danno muscolare.

A questi test bisognerebbe aggiungere, per tutti i soggetti che presentano debolezza muscolare dei cingoli, del tronco e/o dei muscoli respiratori, il test DBS, non invasivo, che permetta di quantificare i livelli di enzima GAA. La diagnosi precoce nei bambini e negli adulti, così come nei neonati, è fondamentale per iniziare tempestivamente il trattamento che è più efficace, quanto prima viene somministrato.

L’unico trattamento approvato, ad oggi, per la malattia di Pompe, è la terapia enzimatica sostitutiva, disponibile dal 2006. La terapia consiste nell’iniezione, per via endovenosa, dell’acido alfa-glucosidasi ricombinante umano, deve essere iniziata il prima possibile e proseguita per tutta la vita. Il farmaco aumenta la sopravvivenza nei neonati e riduce notevolmente la disabilità e in alcuni casi migliora le condizioni motorie, cardiache e respiratorie nei pazienti con malattia insorta in fase tardiva. In uno studio osservazionale, prospettico, pubblicato nel 2017 sulla rivista American Academy of Neurology, i ricercatori hanno valutato l’efficacia della terapia dopo 5 anni dalla prima somministrazione. Sono stati arruolati 102 pazienti adulti dei quali sono state valutate la forza muscolare, la funzione polmonare e la capacità di condurre le attività della vita quotidiana. Tutti questi parametri erano migliori rispetto alle aspettative dei pazienti senza trattamento.

Gli outcome clinici sono migliorati nei primi 2-3 anni di trattamento, ai quali sono seguiti la stabilizzazione o un declino secondario. Nella maggior parte dei pazienti il funzionamento restava comunque migliore o almeno uguale rispetto all’inizio del trattamento.

Gli studi condotti sui neonati hanno mostrato un notevole effetto sull’ipertrofia e sulla funzione cardiaca e un effetto sostanziale sulla sopravvivenza. Un articolo, parte di una serie di pubblicazioni sulle malattie da accumulo lisosomiale, apparso su The Lancet, sottolinea come, al 2008, la sopravvivenza dei bambini affetti, che di solito non superano l’anno di vita, con il trattamento arrivava anche a 8 anni. Diversi pazienti hanno raggiunto traguardi che altrimenti sarebbero stati irraggiungibili, come sedersi, stare in piedi o camminare, il che dimostra che la terapia ha un effetto sulla funzione muscolare. Gli autori concludono che i risultati ottenuti nei neonati sono promettenti e portano ad un decorso clinico meno progressivo.

04 giugno 2020
© Riproduzione riservata

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