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La protezione del malato di mente. Una rete tra giustizia e servizi sul delicato confine tra protezione e contenzione

09 APR - Gentile Direttore,
sento di dovere prendere la parola sulla Salute Mentale italiana che tra poco celebrerà il quarantennale della sua fondazione, prima che si imponga il punto di vista che considera l’abbandono più rispettoso della protezione, quando questa non fosse desiderata dalla persona sofferente.

 

Ho dedicato gran parte della mia vita professionale alla costruzione di pratiche interdisciplinari e interprofessionali tra Giustizia e Salute Mentale, pratiche da cui nascesse una teoria, che per la Magistratura è fortunatamente rappresentata anche dalle sentenze e dalla possibilità di argomentare, confrontare, commentare questi prodotti del lavoro quotidiano. La giurisprudenza rende il Diritto una materia viva. E il Diritto ha la possibilità ravvicinata di tradurre quella teoria in norme che ricadranno utilmente sulle pratiche. Si tratta potenzialmente del più virtuoso dei circuiti tra pratica e teoria.

 

La Legge 180 operò una mossa strategica nel sottrarre alla Pubblica Sicurezza il ricovero coatto per coinvolgere Sanità Pubblica, Autorità Sindacale e il Giudice Tutelare, che ritengo rappresenti, nel Diritto Civile, il fronte avanzato della modernità, intesa come misto di interdisciplinarità, flessibilità, contaminazione vantaggiosa. Lo dicono le caratteristiche dei grandi studi professionali del mondo western, ma anche le crescenti esperienze di co-working nel settore giovanile.

 

Proviamo a manomettere le parole, ciò che feci fin dalla scelta del nome da dare alla rivista che ho fondato e diretto per oltre un decennio, il quadrimestrale interdisciplinare Il reo e il folle. I termini protezione e contenzione del titolo potrebbero dare luogo ad una endiadi per niente ossimorica: contenzione protettiva.

 

Proteggere, dal latino protegere, vale a dire pro, davanti, tegere, coprire, rinvia al gesto protettivo che il forte compie, quando si frappone tra un debole minacciato e la minaccia che lo sovrasta.

 

E’ un gesto spontaneo e nobile, rintracciabile nella etologia. La parola è rassicurante proprio perché legata a questo moto generoso e vitale, sebbene “protettore” rimandi a una relazione umana tutt’altro che amichevole, una relazione dominante e invasiva, schiacciante ed esiziale. Contenere, dai latini cum e tenere, significa tenere insieme, dare continuità.

 

Un termine altrettanto rassicurante quindi, trasformato, da un uso maligno che della contenzione è stato fatto, in una minaccia. Eppure, uno dei significati figurati della parola è proprio proteggere, difendere. Il senso che normalmente viene assegnato al significante è però un altro: reprimere, impedire, trattenere e infine moderare. Un crescendo che di nuovo allontana il senso negativo del termine. Comunque li si riguardi, proteggere e contenere non sono poi così distanti. Pensare alle parole orienta le nostre valutazioni e il nostro agire, visto che le parole fanno diventare vero quello che affermiamo e quindi è bene capire cosa affermiamo, non parlare a vanvera o superficialmente, dato che la superficialità è il vizio supremo (Oscar Wilde docet).

 

Proviamo ora a riabilitare la contenzione e a mostrare come possa andare di pari passo con la protezione. Al termine contenzione ho personalmente preferito quello di coazione, che ricomprende la stessa contenzione rimandando ai significati di coercizione,obbligo e, in un contrappasso per niente peregrino, alla coazione di stampo psicopatologico.

 

Se è vero che il trauma può essere curato con il controtrauma, la coazione che è alla base dei sintomi psicopatologici non è strano che trovi la sua cura nel limite che dall’esterno viene costruito al dilagare della sofferenza: la luminosa virtù del limite. Antitetico all’uso benigno della coazione è l’abbandono -pigro o fondato su ideologie di maniera- del soggetto non compliant al suo destino di uomo libero, in realtà schiavo della sua coazione a ripetere e della sofferenza sperimentata e/o procurata.

 

La delicatissima alternativa è tra l’uso benigno o maligno della coazione. Occorre affilare gli strumenti della coazione benigna per tenere in ordine la cassetta degli attrezzi della Giustizia e della Salute Mentale: penso a un uso appropriato e consapevole dell’Accertamento e del Trattamento Sanitario Obbligatori, oggi declinati in maniera non sempre corrispondente al mandato della Legge 180; al buon utilizzo della Legge sulla Amministrazione di sostegno, con la relativa formazione e la messa a punto di elenchi intelligenti degli amministratori; alla realizzazione di filiere alternative a carcere e REMS per i malati di mente autori di reato; a una disamina onesta della posizione di garanzia dello psichiatra, oggi tergiversata o interpretata in maniera assai superficiale (sempre Wilde).

 

Il problema odierno, di cui non si parla, è quello di una psichiatria che rifugge dalle sue origini -che videro un medico decidere di concerto con un giudice il passaggio dell’uomo sofferente dal carcere all’asilo- nel momento in cui si muove al grido “no alle mie mani addosso, sì alle manette”, una psichiatria che restituisce alla zitta il folle alle mura del carcere, alla coazione troppo spesso maligna di un luogo che necessiterebbe di un arduo rivolgimento prima di potere funzionare da occasione per il malato psichico.

 

Ma è anche il problema di una Magistratura poco disposta a scendere dallo scranno solitario in cui siede per confrontarsi con le grane delle persone e con coloro che di queste grane si occupano istituzionalmente. Senza uno sforzo per lavorare insieme, senza rinunciare al timore di mescolarsi, la Salute Mentale finirà male e l’idea di una Giustizia conveniente si dileguerà.  

 

Quel medico e quel giudice che con il cappellano decisero di aprire le porte dell’Isola delle Stinche, l’antico carcere fiorentino del ‘600, per dare asilo ai prodighi torturati, operarono la rivoluzione che ogni interdisciplinarità convinta è in grado di partorire.

 

Quel Presidente della Sezione Famiglia del Tribunale di Firenze che intuì i rischi che il povero rampollo difficile correva e mise in moto la locomotiva del sollievo, dovrebbe passare alla storia per la semplicità con cui interpretò il suo ruolo e la gentilezza con cui seppe aiutare quell’uomo.

 

Occorrerebbe sapere se e come la Salute Mentale abbia dato seguito all’introduzione di un fattore terapeutico per via giudiziaria, se si vuole davvero comprendere lo stato dell’arte di una norma rivoluzionaria e innovativa come la Legge 180, fuori da proclami che non servono al cittadino sofferente e ai suoi cari.

 

Gemma Brandi

Psichiatra psicoanalista, Esperta di Salute Mentale applicata al Diritto

09 aprile 2018
© Riproduzione riservata

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