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05 GIUGNO 2022
Autonomia differenziata e centralismo: due risposte insufficienti per salvare il SSN

La caratteristica del dibattito in corso è la continua riaffermazione di posizioni elaborate nei primi anni ’90 e rimaste sostanzialmente immutate da quando in CGIL elaborammo il progetto di Casa della salute. Si potrebbe tranquillamente leggere un documento di quegli anni e verificare che quasi nulla è mutato. Un atteggiamento di conservatorismo e scarsa lungimiranza che non agevola una reale riforma del nostro SSN

Premessa
L’apocalisse culturale che sta travolgendo i medici e il personale sanitario necessita di riforme che ridiano senso al lavoro sanitario. Urge creare una nuova ecologia dell’ambiente professionale in cui la valorizzazione delle risorse umane coincida con una reale distribuzione di poteri. Una proposta di rifondazione partecipata della sanità assente sia nei sostenitori del centralismo dello stato e sia in quelli del centralismo regionale. Illusoriamente, in entrambi, la soluzione della crisi viene delegata a un ridisegno dell’architettura istituzionale che non può produrre effetti perché incentrata su un comune modello top-down in cui i sanitari continuano ad essere i meri esecutori di strategie e decisioni assunte altrove.  

Le due visioni nel campo istituzionale
Nel processo in corso di riforma del SSN due diverse posizioni agitano il campo istituzionale. Da un lato un approccio centrifugo tende a valorizzare le specificità di ogni ambito istituzionale, sostenendo che la flessibilità dei modelli rappresenta l’unico modo per dare risposte appropriate a ogni singolo contesto regionale; dall’altro un approccio centripeto sostiene che la garanzia di universalità e uniformità è il requisito indispensabile per superare le già esistenti e crescenti diseguaglianze tra i diversi ambiti territoriali.

Si tratta a ben vedere di quella classica dicotomia che Norberto Bobbio identificava come caratteristica distintiva delle due principali ideologie politiche: il principio di uguaglianza come tratto specifico della sinistra e quello della libertà e della libera intraprendenza come elemento identitario della destra.

In sanità, dunque, i sostenitori dell’autonomia differenziata sono i propugnatori della prima posizione e i suoi detrattori della seconda; con un particolare non di secondaria importanza; la linea di demarcazione tra le due posizioni non segue la tradizione politica dei proponenti ma la loro collocazione territoriale: sono le regioni del Nord (indifferentemente di destra e di sinistra) a sostenere l’autonomia differenziata mentre sono quelle del resto del paese (centro e Sud) ad osteggiarla.

I limiti delle due posizioni
Da un punto di vista dell’architettura istituzionale la proposta di autonomia differenziata, senza ulteriori specificazioni sul modello di governance proposto, sposta soltanto il livello di esercizio del centralismo ma non ne mette in discussione anzi ne rafforza, la validità e la necessità: si tratta dunque di una semplice operazione di rescaling dal livello statale a quello regionale; un processo di devoluzione rafforzata delle competenze che aggrava gli squilibri esistenti e che in nessun caso risolve i motivi di una crisi con caratteristiche ben più profonde e che richiede ben altre soluzioni.

Gli stessi limiti si riscontrano negli “statalisti” in cui il giusto principio dell’eguaglianza all’accesso e dell’uniformità del servizio reso lascia immutato il modello organizzativo complessivo della sanità. Esiste poi una ulteriore contraddizione all’interno degli attori che sostengono tale posizione. Il gruppo di testa che svolge funzione di leader ha ricoperto per lungo tempo funzioni di vertice al Ministero della salute, negli assessorati e nelle strutture apicali di ASL e AO ed ha pertanto in larga misura determinato l’attuale modello burocratico-gerarchico. Un modello che a mia conoscenza non viene messo in discussione con specifiche proposte emendative, anche a fronte della sempre più evidente inadeguatezza del modello aziendalistico vigente.

 Si ignorano così le ragioni profonde di quella apocalisse culturale che ha investito i medici e i sanitari del nostro servizio sanitario e che ha privato di “senso” il lavoro sanitario. Un processo di progressivo straniamento e alienazione diretta conseguenza di due eventi paralleli: il carico di lavoro crescente con la trasformazione degli ospedali e delle aziende sanitarie in luoghi di sfruttamento da cui fuggire il prima possibile e il rapporto di dipendenza ridotto a una gabbia di coercizione e di compressione della creatività degli operatori.

Cambiare dal profondo il modello di governance sanitaria
Le riforme di cui necessita il nostro SSN non riguardano il livello macro della ripartizione delle competenze tra Stato e regioni. A livello macro molto più efficace sarebbe dare piena dignità al Ministero della Salute facendolo uscire da quella condizione di ente vigilato dal MEF e definire, una volta per tutte, che il rapporto spesa sanitaria /PIL non può essere una fisarmonica che cresce un anno e cala il successivo.

Le riforme che possono cambiare la vita istituzionale del nostro SSN sono invece quelle che a livello meso e micro affrontano con decisione la governance delle aziende sanitarie e ospedaliere e che pongono fine a quell’autoritarismo gestionale che le caratterizza; causa del profondo malessere degli operatori e della ben più grave svalorizzazione di competenze non vicariabili.

Il tratto comune delle due posizioni
La mancanza di un’idea riformatrice imperniata su un nuovo equilibrio di poteri tra management e operatori rende dunque finta la contraddizione tra le due opposte visioni della sanità.

Di fatto entrambe ripropongono il vecchio modello in cui una burocrazia, spesso condizionata e indirizzata dalla parte pubblica, gestisce in modo autocratico e con formule impropriamente mutuate dal mercato, un contesto istituzionale in cui operano una pluralità di soggetti.

In nessuna delle due proposte viene avanzata l’idea di superare il potere monocratico del Direttore generale introducendo un comitato di vigilanza sul modello tedesco a rappresentanza di soggetti diversi; una necessità assoluta se si considera la complessità del contesto istituzionale sanitario.

Nulla si dice sulla necessità di riorganizzare il lavoro sanitario istituendo strumenti di co-decisione con gli operatori e le rappresentanze dei cittadini.  Nessun progetto di valorizzazione dei team multiprofessionali e della loro capacità di creare relazioni cliniche di qualità direttamente sul campo entra a fare parte delle agende dei proponenti.

Quello che emerge è una “medicina di carta” agita con il copia-incolla che si sostituisce a quel general intellect costituito dall’insieme degli operatori da cui può derivare assistenza di qualità e umanizzazione delle cure.

Il falso rilancio della medicina del territorio
Significative risorse di derivazione dal PNRR sono state stanziate per la realizzazione delle strutture territoriali (case della comunità e ospedali di comunità) di cui siamo privi.

Anche in questo caso il dibattito si è concentrato sugli aspetti contrattuali dei Medici di famiglia. Si sostiene, non senza ragione, che il MMG debba arrivare a un rapporto di dipendenza ma ci si illude che questa semplice misura abbia il potere di trasformare in oro il vile metallo.

Un evento che non avverrà se non saranno affrontati alla radice i problemi che hanno trasformato all’epoca del just in time, i medici in operai specializzati di una tipica fabbrica fordista con tanto di tempari e retribuzione legata al cottimo.

Serve anche per i MMG una proposta attrattiva; una proposta di effettiva valorizzazione professionale che, per essere credibile, deve andare di pari passo con la “liberazione” del personale dipendente.

Rimando su questo a un precedente articolo scritto con Saverio Proia con cui chiedevamo l’istituzione di una specifica area contrattuale per tutto il personale del SSN e la definizione di un unico contratto di filiera.

Conclusioni
La caratteristica del dibattito in corso è la continua riaffermazione di posizioni elaborate nei primi anni ’90 e rimaste sostanzialmente immutate da quando in CGIL elaborammo il progetto di Casa della salute.

Si potrebbe tranquillamente leggere un documento di quegli anni e verificare che quasi nulla è mutato. Un atteggiamento di conservatorismo e scarsa lungimiranza che non agevola una reale riforma del nostro SSN. Non diversa la posizione dei regionalisti spinti che propongono più devoluzione di competenze e fingono di non vedere la pessima performance della regione di punta di questo schieramento, la Lombardia, nel contrasto all’epidemia da COVID.

Un continuismo in cui è difficile non vedere un atteggiamento di auto tutela delle diverse elites che hanno animato il dibattito degli ultimi decenni.   

Roberto Polillo

 

 

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