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Lunedì 13 MARZO 2023
Cosa è la “santità”?



Gentile Direttore,
lo scorso 30 gennaio una ginecologa di Boston ha pubblicato sul JAMA un articolo, in una sezione della rivista che si intitola ‘A Piece of My Mind’. Mi capita, talvolta, di leggere gli articoli pubblicati in questa sezione, che forse mi attrae poiché I care of uman mind. Quasi sempre, però, gli articoli non riguardano la mente umana se non indirettament.

La sezione dà invece ampio spazio a quelle che potremmo definire delle esercitazioni letterarie di alcuni colleghi. Esercitazioni che spesso, se non comparissero su una rivista tanto importante, mi farebbero pensare alle lettere a donna Letizia. Spesso, leggendo queste esercitazioni letterarie, provo una lieve insofferenza. Raramente trovo una testimonianza umana e professionale interessante. Talora sperimento invece una qualche preoccupazione.

Ho provato molta preoccupazione leggendo il contributo della ginecologa americana del 30 gennaio. Proverò a riassumere il contenuto dell’articolo, al quale curiosamente è stato dato il titolo di Sanctity[1]. La collega lamentava una grande insofferenza: per quella parte di lavoro che la costringeva a rimanere per molto del suo tempo di fronte allo schermo del computer; per gli aspetti burocratici del lavoro; per rispondere alle email e così via. Lamentava inoltre il carattere stressante di una organizzazione lavorativa che le imponeva dei ritmi tali, nelle visite ai pazienti, da limitare o precludere una vera relazione con le persone di fronte a lei. Solo nella sala operatoria, di fronte ai corpi dei pazienti addormentati, ella riusciva a sperimentare la “sacralità” della professione. Solo lì trovava nuovamente un senso, per lei, la professione medica per la quale aveva studiato. Sì, certo, non poca soddisfazione la collega la sperimentava anche nel comunicare ai pazienti e ai familiari l’esito dell’intervento, specie, immaginiamo, nel caso di un esito positivo.

Non intendo certo muovere alcuna critica ai sentimenti che la collega ginecologa prova nello svolgimento della sua attività professionale. Non è solo lecito che ciascuno sperimenti i suoi sentimenti durante il lavoro, ma è soprattutto inevitabile. Quello che trovo davvero curioso è che un medico, il quale sperimenta una mortificazione di tale attività quando si trova “costretto”, nella relazione con un paziente che non sia quello inanimato del tavolo operatorio, da insormontabili limitazioni di tempo e di burocrazia, non faccia di tutto per liberare tale attività da simili insopportabili “costrizioni”. Si tratta infatti di “costrizioni” che mortificano soprattutto il paziente, la sua mente, il suo corpo, e la sua cura che passa attraverso una relazione vera, partecipata e non costretta col suo terapeuta.

Se un medico non riesce a preservare la santità della relazione terapeutica col suo paziente vigile e partecipe, io reputo che sia davvero molto difficile che ci possa essere qualcosa di sacro nella relazione che egli stabilisce con le membra inanimate di tale paziente.

E’ vero. Io parlo da una posizione privilegiata, poiché ho svolto, per la maggior parte degli anni, la professione di psichiatra. Ho anche svolto tale professione in ambiti istituzionali molto complessi e condizionanti, dove il cinico atteggiamento burocratico-amministrativo di coloro (spesso colleghi!) che organizzavano il mio lavoro, tendeva a costringere la mia attività, e le mie relazioni con i pazienti, entro limiti insopportabili, che avrebbero privato la relazione di cura di ogni autentica potenzialità terapeutica.

Molti colleghi accettavano, seppure a malincuore, tali costrizioni. Io ho sempre fermamente rifiutato di adattarmi a tali limiti quando ho ritenuto che costituissero un ostacolo insuperabile alle mie funzioni di cura. Intendiamoci bene: ho ritenuto indispensabili i report puntuali della mia attività (per tutte le finalità burocratico/epidemiologico/statistiche, che assumono anch’esse una valenza clinica), le relazioni e le email ai colleghi e alle autorità che avevano titolo per richiederle, le riunioni costanti con gli altri operatori che partecipavano alla cura dei pazienti e diverse altre incombenze burocratiche.

Ma ho sempre preteso che il tempo a mia disposizione fosse sufficiente a consentirmi lo sviluppo di una piena relazione con i miei pazienti, consapevole che questa relazione sarebbe stata efficace se fosse stata reciproca, condizione che non può darsi quando uno dei due interlocutori è inanimato. Ero e rimango graniticamente convinto della sacralità di tale relazione, che implica rispetto, responsabilità, partecipazione.

Una collega a me molto vicina, pochissimi giorni or sono, per una amica colpita da una malattia ha chiesto consiglio a un esperto e noto chirurgo americano. Il chirurgo, come ha fatto molte altre volte, non solo ha subito esaminato la complessa situazione clinica sottoposta alla sua attenzione, ma non ha esitato a dedicare gratuitamente il suo tempo ai colleghi italiani che hanno direttamente in cura la donna malata.

Ho personalmente constatato negli anni come quel bravissimo chirurgo, allorquando ha dovuto affrontare patologie anche molto gravi di taluni suoi pazienti, ha sempre dedicato uno spazio e un tempo più che sufficiente allo sviluppo di una adeguata relazione di cura con i malati.

Non ho mai chiesto a questo splendido chirurgo se ritenesse sacro il corpo delle persone che operava. So per certo che molte di tali persone, da lui guarite da gravi malattie, erano vicine a ritenerlo un santo. Destando in lui, ne sono certo, un moto di lieve ironia, davvero rassicurante.

Mario Iannucci
Psichiatra psicoanalista

Riferimenti:

[1] Farid H., Sanctity, JAMA. 2023;329(7):537-538. doi:10.1001/jama.2022.24989 (30 gen 2023).

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