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Lunedì 11 MARZO 2013
Rapporto Istat/Cnel: "Si vive sempre più a lungo ma sono forti le disuguaglianze sociali"

La vita media in Italia è pari a 79,4 anni per gli uomini e a 84,5 per le donne. Meglio di noi, per le donne, solo Francia e Spagna e per gli uomini siamo al quarto posto, con la Spagna mentre primeggiano Svezia, Cipro e Malta. Crescono i decessi per demenza senile e malattie del sistema nervoso. Ma la crisi acuisce le differenze sociali. IL RAPPORTO BES.

La vita media continua ad aumentare, e l’Italia è tra i Paesi più longevi d’Europa. Le donne, a fronte dello storico vantaggio in termini di longevità, che tuttavia si va riducendo, sono più svantaggiate in termini di qualità della sopravvivenza: in media, oltre un terzo della loro vita è vissuto in condizioni di salute non buone. La mortalità infantile, quella da incidenti da mezzi di trasporto e quella da tumori, che possono essere incluse nella cosiddetta mortalità evitabile, sono in calo nel lungo periodo, mentre crescono i decessi per demenza senile e malattie del sistema nervoso. La popolazione, peraltro, continua a essere minacciata da comportamenti a rischio: l’obesità è in crescita, l’abitudine al fumo, sebbene in lieve flessione, non diminuisce per i più giovani, tra i quali sono ancora diffuse pratiche dannose come il binge drinking.
 
Queste le principali evidenze in tema di salute del primo Rapporto Bes elaborato dall'Istat e dal Cnel sul “Benessere Equo e Sostenibile” che è stato presentato oggi e che fotografa la società italiana attraverso 134 indicatori suddivisi per 12 aree di ricerca (salute, istruzione e formazione, lavoro e conciliazione dei tempi di vita, benessere economico, relazioni sociali, politica e istituzioni, sicurezza, benessere soggettivo, paesaggio e patrimonio culturale, ambiente, ricerca e innovazione e qualità dei servizi).
 
La durata della vita media
Secondo le stime effettuate nel 2011, la vita media in Italia è pari a 79,4 anni per gli uomini e a 84,5 per le donne, con valori leggermente più bassi nel Mezzogiorno (rispettivamente 78,8 e 83,9 anni). Tra i 27 Paesi dell’Unione europea, confrontando i dati più recenti disponibili, nel 2010 soltanto in Francia e in Spagna le donne sono più longeve che in Italia (85,3 anni in entrambi i Paesi); gli uomini sono più longevi in Svezia, mentre l’Italia si posiziona al quarto posto in graduatoria insieme a Spagna, dopo Cipro e Malta.
Negli ultimi dieci anni in Italia la vita media è aumentata di 2,4 anni per gli uomini e di 1,7 anni per le donne. La positiva evoluzione della sopravvivenza si riscontra in tutte le ripartizioni geografiche: nel 2011 la distanza tra la regione più favorita e quella meno favorita è di 2,8 anni, sia per gli uomini sia per le donne. Per la prima volta negli ultimi anni, la provincia di Bolzano (80,5 anni per gli uomini) affianca la regione Marche, tradizionalmente a più lunga sopravvivenza. Anche per le donne è la provincia di Bolzano (85,8 anni) quella con la sopravvivenza media più elevata, seguita da Trento (85,5) e dalle Marche (85,4). È la Campania, invece, la regione in cui mediamentesi vive meno a lungo; nel 2011 la sopravvivenza è pari a 77,7 anni per gli uomini e a 83 anni per le donne.
Si riducono le differenze di genere: il vantaggio femminile, che nel 2001 era di 5,8 anni, si riduce a 5,1 nel 2011, continuando una tendenza iniziata nel 1979, quando raggiunse il massimo di 6,8 anni.
La vita media si è allungata grazie ad una riduzione della mortalità a tutte le età, ma soprattutto nelle età adulte e anziane, avendo la mortalità infantile raggiunto valori bassi già da tempo. Infatti, dei 5,4 anni guadagnati dagli uomini e dei 3,9 anni guadagnati dalle donne negli ultimi vent’anni, rispettivamente il 70% e l’80% sono da attribuire al calo della mortalità sopra i 45 anni.
 
La speranza di vita in buona salute
L’indicatore che combina la componente di sopravvivenza alla percezione di buona salute da parte dei cittadini è la speranza di vita in buona salute alla nascita. Nel 2010 un nuovo nato in Italia può contare su 59,2 anni di vita in buona salute se maschio, 56,4 se femmina, con uno svantaggio per i residenti nel Mezzogiorno, rispetto alla media, di 2,8 anni per i maschi e 2,3 anni per le femmine.
La maggiore longevità delle donne non è dunque accompagnata da una migliore qualità della sopravvivenza: le donne, infatti, sono affette più frequentemente e più precocemente rispetto agli uomini da malattie meno letali, come per esempio l’artrite, l’artrosi, l’osteoporosi, ma con un decorso che può degenerare in condizioni più invalidanti. Di conseguenza, ci si può attendere che oltre un terzo della vita di una donna (33,3%) sia vissuto in condizioni di salute non buone, mentre per gli uomini la proporzione di anni vissuti in condizioni di salute non buone è pari al 25,4%.
Se si considera un altro importante indicatore della qualità della sopravvivenza, la speranza di vita senza limitazioni nelle attività quotidiane, gli uomini sono ancora una volta più favoriti rispetto alle donne: a 65 anni, un uomo può contare di vivere senza limitazioni della propria autonomia ancora 9,0 anni (sui 18,3 anni complessivi), mentre per una donna il numero complessivo di anni ancora da vivere è maggiore (21,9), e quelli che può sperare di vivere senza limitazioni sono comunque 9,1 anni.
Il Mezzogiorno è penalizzato doppiamente, perché oltre ad avere una vita media più breve, è svantaggiato anche nella qualità della sopravvivenza.
Nel 2010 la speranza di vita, infatti, nel Sud e nelle Isole è pari a 78,7 anni per gli uomini e 83,8 anni per le donne rispetto a 79,3 per gli uomini e 84,5 per le donne del Nord. Il numero di anni in buona salute è uguale a 56,4 anni per gli uomini e 54 per le donne del Mezzogiorno, rispetto a 60,8 per gli uomini e 57,7 per le donne del Nord.
Lo svantaggio del Mezzogiorno si mantiene anche per la qualità della sopravvivenza alle età anziane: infatti, sia per gli uomini che per le donne, la speranza di vita senza limitazioni nelle attività quotidiane è di circa due anni più lunga al Nord (8 e 7,3 rispettivamente per uomini e donne del Mezzogiorno, contro 10 e 9,8 per uomini e donne del Nord).
 
La popolazione, peraltro, continua a essere minacciata da comportamenti a rischio: l’obesità è in crescita (circa il 45% della popolazione maggiorenne è in sovrappeso o obesa); l’abitudine al fumo, a distanza di 10 anni, mostra solo una lieve flessione (nel 2001 i fumatori erano il 23,7% della popolazione di 14 anni e più, nel 2011 sono il 22,7%, una quota stabile dal 2004), ma non diminuisce per i più giovani; tra questi ultimi peraltro si sono diffuse pratiche di abusi nel consumo di bevande alcoliche (bingedrinking).
Uno stile di vita sedentario caratterizza una proporzione non indifferente di adulti (circa il 40% non svolge alcuna attività fisica nel tempo libero); inoltre, in Italia oltre l’80% della popolazione consuma meno frutta e verdura di quanto raccomandato. Elementi questi che rappresentano fattori di rischio per l’oggi, ma a maggior ragione per il futuro se si consolidassero negli stili di vita della popolazione. Mezzogiorno e persone di estrazione sociale più bassa continuano a essere le più penalizzate in tutte le dimensioni considerate.
 
I servizi sociali: l’assistenza sanitaria e socioassistenziale
La dotazione infrastrutturale dei servizi sociali può essere ben rappresentata dall’offerta di tipo residenziale per l’assistenza socio-assistenziale e socio-sanitaria.
Nel 2010 c’erano sette posti letto ogni mille abitanti. L’assistenza socio-sanitaria ha assunto nel corso degli anni un ruolo crescente e alternativo al ricovero ospedaliero ordinario perché meno costosa e più vicinaalle esigenze dell’utenza, caratterizzate, queste ultime, non solo da bisogni di carattere sanitario ma anche sociale. Per quanto riguarda la componente socio-assistenziale, invece, l’attività svolta da queste strutture si rivolge a utenti, minori o adulti, con problemi legati al disagio sociale ed economico, offrendo accoglienza abitativa, tutela dei minori, assistenza socio-educativa e psicologica. La dotazione di queste strutture residenziali mostra rilevanti divari territoriali, con dieci posti letto per mille abitanti al Nord e solo cinque e quattro posti letto rispettivamente al Centro e al Mezzogiorno.
 
L’offerta più elevata si registra in Valle d’Aosta e nella Provincia di Trento, rispettivamente con 17,4 e 13 posti letto ogni mille abitanti, mentre in Campania edelle strutture private convenzionate o sovvenzionate dal settore pubblico, mentre sono esclusi gli utenti di quelle private tout-court, che dovrebbero invece concorrere a raggiungere l’obiettivo indicato nel 2000 dal Consiglio europeo, cioè di una quota del 33% di utenti totali entro il 2010. A tale riguardo l’indagine “Aspetti della vita quotidiana” svolta dall’Istat, rileva che nel 2011 solo il 18,7% dei bambini tra zero e due anni frequenta un asilo nido (pubblico o privato).
L’aumento osservato in questi anni è da attribuire in misura significativa al forte impulso fornito dal “Piano straordinario di intervento per lo sviluppo del sistema territoriale dei servizi socio-educativi per la prima infanzia”, avviato nel 2007 grazie ad una intesa tra il governo, le regioni e le autonomie locali.
Ciononostante, a livello territoriale persistono notevoli differenze, con quote di bambini assistiti attorno al 20% nelle regioni del Nord e del Centro e al 5% in quelle del Mezzogiorno. Nonostante i tentativi di ridurre il divario Nord-Sud attraverso la fissazione degli “Obiettivi di servizio” previsti nell’ambito del Quadro strategico nazionale (Qsn) 2007-2013, gli incrementi maggiori si sono registrati nelle regioni del Centro-nord, il che ha prodotto un’ulteriore divergenza di carattere territoriale.
 
Una dinamica simile si riscontra anche per l’Assistenza domiciliare integrata (Adi), un altro servizio di grande rilevanza per il benessere delle persone, in particolare degli anziani e, in generale, per le famiglie. L’Adi rappresenta una tipologia di assistenza alternativa al ricovero ospedaliero, comporta evidenti vantaggi anche in termini di qualità della vita del paziente ed ha assunto, nel corso degli ultimi sei anni, una crescente importanza: dal 2004 al 2010, infatti, si è passati da tre a quattro persone prese in carico da questa forma di assistenza ogni cento persone di 65 anni e più.
Tuttavia, nonostante la rilevanza di tale forma di assistenza e il trend crescente osservato nel corso degli anni, il dato medio nazionale denota un livello di attività ancora molto basso, infatti il numero medio di anziani presi in carico è meno della metà di quello fatto registrare nelle tre regioni con più elevata assistenza domiciliare (Emilia-Romagna, Umbria e Friuli-Venezia Giulia). Inoltre, questa tipologia di assistenza degli anziani presenta una elevata variabilità territoriale, che vede maggiormente svantaggiate le regioni del Mezzogiorno.
Nelle regioni settentrionali sono stati assistiti nel 2010 oltre cinque anziani ogni cento, circa quattro in quelle del Centro e poco più di due in quelle del Mezzogiorno. Tra le regioni più virtuose spicca l’Emilia-Romagna, che prende in carico circa 12 anziani su cento persone di 65 anni e più; all’estremo opposto troviamo la Valle d’Aosta, che ne assiste meno di uno. Nell’ultimo decennio ci sono stati miglioramenti in quasi tutte le regioni con le eccezioni di Friuli- Venezia Giulia e Molise.
 
Fotografata anche la realtà economica e sociale del Paese che da questi anni di crisi esce alquanto negativa con la crescita di deprivazione e povertà.
Le famiglie italiane - ossrvano i ricercatori - hanno tradizionalmente un’elevata propensione al risparmio e la proprietà dell’abitazione, fanno inoltre ricorso all’indebitamento in misura contenuta e mostrano una diseguaglianza della ricchezza che, nel confronto europeo, è meno marcata di quella osservata in termini reddituali.
In presenza di un sistema di welfare che ha sempre riguardato soprattutto la componente previdenziale, la famiglia, anche in senso allargato (ovvero non solo per chi vive sotto lo stesso tetto), ha funzionato da ammortizzatore sociale a difesa dei membri più deboli (minori, giovani e anziani), talora celando le difficoltà di accesso all’indipendenza economica di giovani di ambo i sessi e donne di ogni età, per queste ultime soprattutto in presenza di carichi familiari.
 
La crisi economica degli ultimi cinque anni sta mostrando i limiti di questo modello, accentuando le disuguaglianze tra classi sociali, le profonde differenze territoriali e riducendo ulteriormente la già scarsa mobilità sociale. In questo arco di tempo alcuni segmenti di popolazione e certe zone del Paese sono stati particolarmente colpiti sia dalla riduzione dei posti di lavoro (la percentuale degli individui in famiglie senza occupati è passata, tra il 2007 e il 2011, dal 5,1% al 7,2%, con una dinamica più accentuata tra gli under 25, per i quali è cresciuta dal 5,4% all’8% e nel Mezzogiorno, dove dal 9,9% si è passati al 13,5%), sia dalla diminuzione del potere d’acquisto, che tra il 2007 e il 2011 si è ridotto del 5%.
Fino al 2009, ciò non si è tradotto in un significativo aumento della povertà e della deprivazione grave (stabili al 18,4% e al 7% rispettivamente), grazie al potenziamento degli interventi di sostegno al reddito dei lavoratori (indennità di disoccupazione e assegni di integrazione salariale) e al funzionamento delle reti di solidarietà familiare. Le famiglie hanno tamponato la progressiva erosione del potere d’acquisto intaccando il patrimonio, risparmiando meno e, in alcuni casi, indebitandosi: la quota di persone in famiglie che hanno ricevuto aiuti in denaro o in natura da parenti non coabitanti, amici, istituzioni o altri è passata dal 15,3% del 2010 al 18,8% del 2011 e, nei primi nove mesi del 2012 la quota delle famiglie indebitate è passata dal 2,3% al 6,5%.
 
Con il perdurare della crisi, nel 2011 la situazione si è deteriorata, lo conferma l’impennata degli indicatori di deprivazione materiale; la grave deprivazione aumenta di 4,2 punti percentuali, passando dal 6,9% all’11,1% (che vuol dire parlare di circa 6,7 milioni di italiani in serie difficoltà economiche con un balzo in avanti di 2,5 milioni in un solo anno), preceduta da un incremento, nel 2010, del rischio di povertà (calcolato sul reddito 2010) nel Centro (dal 13,6% al 15,1%) e nel Mezzogiorno (dal 31% al 34,5%) e da un aumento della disuguaglianza del reddito (il rapporto tra il reddito posseduto dal 20% più ricco della popolazione e il 20% più povero dal 5,2 sale al 5,6). 

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