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Giovedì 04 APRILE 2013
La riforma Cameron e noi

E’ operativa la “controriforma” del servizio sanitario del governo britannico. Espressione di un epilogo disperato di un riformismo dal fiato corto con giochetti di mercato, con esperimenti gestionali, con strane corresponsabilizzazioni dei medici. E in Italia?

Dal 1° di aprile in Inghilterra è entrata in vigore una legge, ”Health and social care act” che controriforma radicalmente l’universalismo del tanto imitato National health service . L’equivalente delle nostre Asl (Primary Care Trusts) sono sostituite da 211 consorzi di General Practitioners (GPs, i medici di famiglia), denominati Clinical Commissioning Groups (CCGs) che in pratica si configurano come organizzazioni private alle quali saranno destinati 65 miliardi di sterline di fondi pubblici (quasi il 70% dei 95 miliardi di sterline dell’intero budget sanitario nazionale).
 
Questi consorzi dovranno definire contratti in nome e per conto dei loro assistiti con fornitori di prestazioni sanitarie. Le prestazioni comprendono ricoveri ospedalieri, esami diagnostici, visite specialistiche, assistenza domiciliare, etc. Non sono pochi gli studiosi che parlano di “un vero mutamento genetico del NHS” e di “fine del NHS”. E probabilmente non hanno torto. Ma gli inglesi non sono nuovi a tali avventure, già 30 anni fa essi avevano tentato la strada dei “mercati interni”, quella della competività ,dei budget per i medici di medicina generale, della rivoluzione manageriale e più recentemente quella delle fondazioni ospedaliere.
E spesso i nostri savant, quelli che leggono il BMJ, sono andati loro dietro magari con qualche lustro di ritardo importando in Italia i loro fallimenti.
 
Dico subito che non sono mai stato un fervente sostenitore dei numerosi tentativi di controriforma fatti dagli inglesi in questi anni. Sono sempre stato convinto che nella loro elaborazione e nel loro pragmatismo c’erano tanti di quei buchi che prima o poi li avrebbero condotti fuori strada.
La controriforma Cameron mi sembra quindi l’espressione di un epilogo disperato di un riformismo dal fiato corto ostinato a trovare le soluzioni con giochetti di mercato, con esperimenti gestionali, con strane corresponsabilizzazioni dei medici ecc. Alcune idee probabilmente meriterebbero una maggiore considerazione, come quella di investire su un nuovo rapporto tra medici di medicina generale e cittadini, in stretta collaborazione con le istituzioni comunali e municipali. Ma se l’idea appare interessante il modo di praticarla a me sembra molto rischioso.
Non posso dimenticare l’esperienza dei budget dati proprio ai medici di medicina generale che finirono per lucrare sui malati più convenienti. Ma a parte le mie riserve questa controriforma mi fa male in parte perché storicamente non è possibile immiserire l’importanza che ha avuto il NHS, in parte perché l’avverto come un sinistro monito sul destino dei sistemi universalistici quasi che fosse impossibile una sanità pubblica. Del resto in Italia non mancano gli epigoni zelanti di questa linea, già esistono consorzi di medici generali, già si stanno sperimentando le fondazioni, ma soprattutto molte regioni sono impegnate a costruire e a sostenere mutue integrative, assistenza low cost, cioè sono impegnate a ridurre arbitrariamente le garanzie assistenziali dell’art 32, spingendo i cittadini nel privato e non solo per l’assistenza specialistica e farmaceutica ma per ogni sorta di bisogno.
 
La differenza che vedo tra noi e gli inglesi è che questi per fare i consorzi non hanno esitato a sbaraccare un intero sistema istituzionale (Strategic Health Authorities e Primary Care Trusts), in pratica l’equivalente delle nostre regioni e delle nostre aziende sanitarie; mentre noi assistiamo ad un sistema di potere pubblico che tenta di perpetuarsi disponibile per questo a privatizzare almeno una parte cospicua delle sue prerogative.
Colpisce come certe regioni siano più impegnate a fare mutue integrative che non a riformare al loro interno sistemi diseconomici, obsoleti, antieconomici. Negli ultimi 10 anni l’espulsione relativa dei cittadini dall’area dei diritti da parte delle regioni grazie alle loro manovre sull’irpef, sui ticket, sulle liste di attesa, alle riduzione di fatto dei Lea, è cresciuta in termini di spesa privata del 25 % e oggi la massa di denaro definita eufemisticamente “out of pocket” ammonta almeno a 30 mld di euro.
 
Tutto questo è accaduto perché milioni di persone sono state spinte per ragioni di spesa e per incapacità riformatrici silenziosamente oltre l’art 32 della Costituzione. Oggi l’art 32, quindi il diritto alla salute, non è più un vincolo per nessuno, meno che mai per le regioni, anche se mi risulta che sia stato il titolo V ad essere ripensato ma non l’art 32. Questa contraddizione se non rimossa la pagheremo cara. Se i poteri delle regioni anziché essere usati per riformare senza negare sono usati per privatizzare, quindi per negare, non abbiamo fatto un buon affare.
Siamo nella più plateale anticostituzionalità e nessuno sembra farci caso. Propongo che prima di contravvenire all’art 32 si dia fondo a tutte le diseconomie del sistema, si intervenga su tutte le clamorose anti economicità, si azzerino le corruzioni, gli abusi e le speculazioni, i favori verso singoli privilegiati, i clientelismi dei partiti, le obsolescenze delle organizzazioni, le arretratezze professionali. Ma la condizione per fare una riforma di questo genere, chiedo scusa se mi ripeto, resta quella di risolvere il problema del “riformista che non c’è”.
 
Ivan Cavicchi

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