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Mercoledì 21 AGOSTO 2013
Il destino dei precari nella PA. Se l’unica via resta quella “giudiziaria”

I contratti “flessibili” nel pubblico impiego sono 317mila. Per loro regna da sempre l’incertezza per il futuro. In attesa di capire cosa cambierà con il provvedimento atteso per venerdì dal Cdm che dovrebbe dare alcune risposte, resta comunque sempre aperta la via giudiziaria per sanare un’ingiustizia per cui la UE ci ha già condannato

Il tema del precariato nella Pubblica Amministrazione rappresenta una delle principali piaghe della nostra società. È inaccettabile che uno stato di diritto, come può essere definito il nostro, releghi miriadi di lavoratori/cittadini ad uno stato di mancanza di continuità del rapporto di lavoro e di certezza sul futuro.
 
Il contratto a tempo indeterminato rappresenta la forma classica di costituzione del rapporto di lavoro, a fronte dell’eccezionalità di quello a termine. La mission del Welfare State è quello di estirpare tutte le forme di precarizzazione del rapporto di lavoro, ancor più se queste si pongono in essere nella Pubblica Amministrazione. Ad oggi secondo l'ultimo censimento dell'Aran, l'agenzia nazionale che si occupa del pubblico impiego, i contratti “flessibili” nella P.A. sono 317mila. Circa 203mila, però, sono i supplenti che lavorano in scuole, accademie e conservatori, per cui i “lavoratori non standard" della Pubblica Amministrazione sono intorno ai 114mila. In gran parte (il 76%) sono titolari di contratti a tempo determinato, ma non mancano 18mila lavoratori socialmente utili, poco meno di 10mila contratti di somministrazione e una sparuta rappresentanza di rapporti di formazione e lavoro[1].
 
A fronte di un numero così elevato di precari e di due procedure di infrazione aperte dalla Comunità Europea(proc. 2010/2045 e 2010/2124) nei confronti dell'Italia per la violazione della normativa sulla reiterazione dei contratti a termine, il sindacato deve intervenire in maniera decisa nel richiedere al Governo la rapida apertura delle procedure di stabilizzazione. I principi comunitari di non discriminazione tra i lavoratori a termine e quelli a tempo indeterminato, in ragione di un atteggiamento che deve essere ispirato alla prevenzione dell’abuso derivante dalla reiterazione del lavoro a tempo determinato, riaffermano la “eccezionalità” del contratto a termine, ribadendo come regola aurea il contratto a tempo indeterminato.
Un’analisi della legislazione italiana e un breve escursus giurisprudenziale sullo stato dell’arte, ci consentono di comprendere al meglio il fenomeno del precariato nella P.A. e la bontà delle azioni da porre in essere per tendere al suo superamento.
 
Il ricorso abusivo ai contratti a termine reiterati attraverso proroghe e doppie proroghe per più di 36 mesi, è illegittimo ai sensi della direttiva comunitaria 1999/70/Ce attuativa dell’accordo quadro sul tempo determinato del 28/06/1999 recepito attraverso il dlgs 368/2001. L’ Art. 4 comma 1 del dlgs 368/2001 stabilisce che “Il termine del contratto a tempo determinato può essere, con il consenso del lavoratore, prorogato solo quando la durata iniziale del contratto sia inferiore a tre anni. In questi casi la proroga è ammessa una sola volta e a condizione che sia richiesta da ragioni oggettive e si riferisca alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto è stato stipulato a tempo determinato. Con esclusivo riferimento a tale ipotesi la durata complessiva del rapporto a termine non potrà essere superiore ai tre anni.”, prevedendo quindi la conversione del contratto da tempo determinato a indeterminato in caso di abuso.
 
L’ Art. 36 comma 5 del dlgs 165/2001 statuisce invece che “(…) la violazione di disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione. Il lavoratore interessato ha diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative.”
 
Secondo una parte della giurisprudenza e dell’Avvocatura dello Stato italianol’art. 4 comma 1 del dlgs 368/01 non risulterebbe essere applicabile al lavoro pubblico, generando in questo modo un palese e curioso  cortocircuito.
Il cortocircuito trova origine dall’applicazione e attuazione dell’art. 36 del dlgs 165/2001, secondo il quale al lavoratore in caso di violazione delle norme in tema di contratti a termine, è previsto il risarcimento del danno di una caratura tale da risultare effettivamente dissuasivo e disincentivante per prevenirne l’abuso[2], secondo quanto statuito dalla direttiva europea 70 del 1999.
 
Ma quale risarcimento può essere previsto per i precarise questi risultano detentori di un contratto a temine, in base al quale vengono regolarmente corrisposte le retribuzioni e versati i contribuiti? Molti giudici di merito si sono dichiarati incapaci di quantificare il “danno” generato dalla reiterazione illegittima dei contratti a termine; altri invece hanno mutuato la sanzione dall’art.18 dello statuto dei lavoratori riconoscendo come risarcimento 20 mensilità; altri hanno previsto un risarcimento monstre di 170 mila euro, riconoscendo il diritto a percepire per “lucro cessante”, tutte le retribuzioni fino all’età pensionabile. Un caos tremendo degno della migliore entropia, aggravato da due sentenze della Corte di Cassazione 392 e 10127 del 2012, che hanno escluso totalmente il risarcimento del danno e la conversione del contratto dalle misure effettive per prevenire l’abuso dei contratti a termine. E quindi se non vi è risarcimento del danno e neanche conversione, come si previene l’abuso? Solito caos all’italiana.
 
A smentire la Cassazione ci ha pensato la Cassazione stessa, la quale attraverso la relazione n. 190 del 24 ottobre 2012 del Massimario, ha riconosciuto come unica misura effettiva che consenta di recepire correttamente la Direttiva UE 1999/70 nel settore della scuola, la conversione del rapporto in caso di reiterazione dei contratti “(… ) Nella fattispecie in disamina, se non si ammette la conversione del rapporto, l’abuso del termine non avrebbe di fatto alcuna sanzione in quanto il risarcimento del danno, peraltro concretamente difficilmente configurabile e dimostrabile, non riguarderebbe la mancata prosecuzione del rapporto per la scadenza del termine, ma solo il diverso danno eventualmente subito nel passato (difficilmente configurabile se non per i periodi tra un contratto e l’altro, trattandosi di personale regolarmente retribuito), né potrebbe avere carattere sanzionatorio (essendo esclusi i punitive damages nel nostro sistema): va dunque registrato che la clausola 5 è applicabile allo Stato verticalmente e che la conversione del rapporto è l’unico rimedio effettivo che consente di prevenire e sanzionare l’abuso del termine da parte della pubblica amministrazione. A tale conversione non sembra d’ostacolo l’art. 36 dlgs 165/2001 su richiamato, nelle ipotesi in cui l’assunzione (pur a termine) è stata legalmente effettuata sulla base delle graduatorie permanenti, atteso che da queste stesse graduatorie secondo la legge (cui rimanda l’art. 97, co. 3, Cost.) si attinge (in parte ovvero, in caso di mancanza di concorsi, in tutto) per le immissioni in ruolo (…)”
 
A mio avviso e secondo una parte della giurisprudenza, analizzando lo status delle cose, l’unico modo per prevenire l’abuso dei contratti a termine è la conversione del contratto. A breve ci sarà la pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione europea, investita della vicenda da alcuni giudici di merito attraverso due rinvii pregiudiziali rispettivamente del 02 e 15 Gennaio 2013, che dirimerà una volta per tutte la questione spinosa tra risarcimento del danno e conversione del contratto a termine. Se la Corte di Giustizia decreterà come unica misura effettiva per prevenire il ricorso abusivo ai contratti a termine, la conversione del contratto, tutti i precari che hanno presentato ricorso vedranno il loro rapporto di lavoro trasformato da determinato a indeterminato.
 
Se invece la C.G.E.U. dovesse riconoscere il risarcimento del danno, come unica misura effettiva e dissuasiva ai sensi della direttiva 1999/70/CE, lo Stato italiano sarà costretto risarcire milioni di lavoratori, rischiando il collasso; l’unico modo per prevenire un collasso inevitabile e una naturale implosione, sarebbe quello di prevedere una stabilizzazione del personale alla stessa stregua di quella prevista dal governo Prodi nel 2006 e 2007. È su questi presupposti che gli stakeholder di  categoria diventano indispensabile nell’orientare verso politiche di “stabilizzazione” la classe politica dirigente. La contrattazione e le iniziative di mobilitazione rappresentano sicuramente gli strumenti a disposizione più efficaci, ma nella situazione attuale in cui il ruolo della contrattazione è stato depotenziato dai governi precedenti, il ricorso alla via giudiziaria risulta essere a mio avviso, indispensabile e inevitabile.
 
Nel comparto Sanità ad esempio, il ricorso alla via giudiziaria è scarsamente perseguita, a fronte invece di ricorsi seriali effettuati dai lavoratori del comparto Scuola, che hanno portato a risultati enormi così come notiziato in precedenza. La sensibilizzare di tutti i lavoratori “non standard” ad intraprendere la via giudiziaria, attraverso campagne mirate e assemblee per veder rivendicato il diritto alla stabilizzazione del rapporto di lavoro, è certamente a fronte anche delle recenti e prossime pronunce della C.G.E.U., lo strumento cardine per la lotta al definitivo superamento del fenomeno del precariato.
 
Ad avvalorare la bontà del ricorso alla via giudiziaria è la recente pronuncia della Corte Costituzionale(secondo precedente della storia della nostra Repubblica) che con l’ordinanza 207/2013 depositata in cancelleria il 18/07/2013 ha sottoposto alla Corte di giustizia dell’Unione europea, in via pregiudiziale ai sensi e per gli effetti dell’art. 267 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea i seguenti quesiti:
– se la clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, allegato alla direttiva del Consiglio 28 giugno 1999, n. 1999/70/CE debba essere interpretata nel senso che osta all’applicazione dell’art. 4, commi 1, ultima proposizione, e 11, della legge 3 maggio 1999, n. 124 (Disposizioni urgenti in materia di personale scolastico) – i quali, dopo aver disciplinato il conferimento di supplenze annuali su posti «che risultino effettivamente vacanti e disponibili entro la data del 31 dicembre», dispongono che si provvede mediante il conferimento di supplenze annuali, «in attesa dell’espletamento delle procedure concorsuali per l’assunzione di personale docente di ruolo» – disposizione la quale consente che si faccia ricorso a contratti a tempo determinato senza indicare tempi certi per l’espletamento dei concorsi e in una condizione che non prevede il diritto al risarcimento del danno;
 
– se costituiscano ragioni obiettive, ai sensi della clausola 5, punto 1, della direttiva 28 giugno 1999, n. 1999/70/CE, le esigenze di organizzazione del sistema scolastico italiano come sopra delineato, tali da rendere compatibile con il diritto dell’Unione europea una normativa come quella italiana che per l’assunzione del personale scolastico a tempo determinato non prevede il diritto al risarcimento del danno.
 
Pierpaolo Volpe 
Infermiere legale e forense 
 
[1] Gianni Trovati - Il Sole 24 Ore 
[2] Corte di Giustizia dell’Unione europea, ordinanza Affatato del 1 Ottobre 2010

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