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Martedì 27 AGOSTO 2013
I medici e le professioni sanitarie. Quando manca la chiarezza sulle ‘regole d’ingaggio’



Gentile Direttore,
desidero condividere alcune riflessioni sulle professioni sanitarie che mi sono venute leggendo Quotidiano Sanità. Per sinteticità e per mia chiarezza di pensiero vado per punti:
Primo. Penso che effettivamente ci sia qualche problema di rapporto tra le professioni sanitarie e in particolare tra la professione medica (o parte di essa) e il resto del mondo sanitario (o parte di esso). Questa riflessione nasce dal fatto che il caso "Marlia" parte proprio dalla denuncia di un sindacato medico nei confronti dell’attività dei Tecnici di radiologia, continua osservando che quella medica è l'unica professione sanitaria a cui è concesso di svolgere la libera professione e, infine, che sempre dei medici, o loro associazioni di rappresentanza professionale, hanno promosso degli esposti/denunce contro le delibere regionali della Toscana e dell'Emilia Romagna sull'attività infermieristica di "see&treat" e di "perimed". Penso che queste coincidenze lascino un sospetto: il tentativo estremo di difendere uno status acquisito da parte di una professione che non ha saputo rinnovarsi nei confronti di un contesto in continuo cambiamento - epidemiologico, organizzativo, giuridico, sociale ed economico - e dei notevoli passi avanti fatti dalle professioni sanitarie non mediche. Ciò che da tempo vado dicendo è che c'è bisogno di aria nuova nel sistema altrimenti lo stesso non sarà più sostenibile. Mantenere le roccaforti per alcuni settori - in particolare quelli non legati all'assistenza diretta - mentre si riorganizzano e tagliano altri servizi ai cittadini mi pare un controsenso e controproducente per i nostri assistiti.
 
2. I raggi non fanno male: il caso del personale "non esposto". Da quanto letto nel numeroso carteggio sul caso "Marlia" mi pare di capire che ci sia la rivendicazione da parte di alcune associazioni di radiologi della necessaria presenza attiva del radiologo prima (valutazione dell'appropriatezza dell'indagine richiesta e informazione al paziente dei rischi correlati all'esame), durante (verifica della correttezza dell'esame e supervisione) e dopo (refertazione) l'esecuzione dell'indagine diagnostica. Qui la riflessione nasce dal crescente contenzioso legale circa la radioesposizione del personale infermieristico operante nelle sale radiologiche e nelle sale operatorie. Diverse aziende, infatti, hanno rivisto il personale infermieristico radioesposto (ai radiologi e ai Tecnici di radiologia l'indennità di rischio è divenuta indennità professionale ed è percepita indipendentemente dall'esposizione) per limitarne l'erogazione dell'indennità di rischio radiologico e il riposo biologico. La domanda che mi pongo è: come mai il personale delle sale operatorie - dell'ortopedia o urologia per esempio - che, notoriamente, utilizza spesso l'apparecchio di brillanza e si trova a lavorare vicino la fonte radiogena per diverso tempo, per diversi giorni e per diversi anni è dichiarato dal fisico sanitario (esperto qualificato) "non esposto" e quindi non degno di controllo medico periodico mentre chi esegue un esame radiologico - semplice come quelli effettuati in un presidio sanitario non ospedaliero - dobbiamo mettere un radiologo per informare e vigilare sui rischi da radioesposizione? Se per quel personale - certo dotato dei sistemi di protezione individuali - che comunemente è a contatto con le fonti radiogene non sussiste rischio radiologico, che rischio potrà esserci per un paziente che saltuariamente va a fare una lastra? Il rischio radiologico e con esso la responsabilità complessiva delle apparecchiature e dei trattamenti esiste ancora? I raggi emessi da macchine sempre più precise e moderne fanno ancora male?
 
3. La formazione sull'uso delle apparecchiature radiologiche e la sostituzione del Tecnico di radiologia con l'Infermiere e del radiologo con il chirurgo: la quotidianità nelle sale operatorie d'Italia. Se anche durante l'esecuzione degli esami è necessaria la presenza del radiologo e del tecnico di radiologia mi viene il sospetto che molte sale operatorie della penisola non siano conformi a tale dovere. Diverse volte mi sono dovuto occupare, infatti, di tale questione: agli infermieri di sala operatoria viene chiesto di usare l'apparecchio radiologico in mancanza del tecnico di radiologia (per scarsità di risorse, convenienza organizzativa ed economica) e del radiologo (anche se la legge individua come responsabile delle procedure il chirurgo). Ad esempio in un'azienda sanitaria del Veneto - ma non è l'unica - si è disposto che sia l'infermiere a posizionare correttamente l'apparecchio radiologico durante gli interventi chirurgici perché così si rendono "più fluide ed efficaci le dinamiche dell'equipe medico-infermieristica operatoria". Inoltre, "pare del tutto evidente che, in considerazione dell'elevato livello di automazione dell'amplificatore di brillanza, rimangono all'infermiere esclusivamente i compiti del corretto posizionamento del macchinario, mentre resta di esclusiva responsabilità del medico dare indicazioni della movimentazione dell'apparecchiatura, attivare il macchinario per l'esposizione e valutare i risultati". A cosa servono il radiologo e il tecnico di radiologia negli ambiti di utilizzo delle apparecchiature radiologiche? Basta un infermiere, un medico e un apparecchio moderno e semplice e tutto è possibile per chi dirige di fatto l'organizzazione dei servizi. E di fronte a tale problema, alcune direzioni hanno proposto un "corso di formazione" di alcune ore tenuto da un Tecnico di radiologia per insegnare come utilizzare l'apparecchio agli infermieri. E non mi si dica che tutto ciò non è legale e va denunciato. Già fatto! Mi è stato risposto che la materia è già stata ampiamente trattata e non ci sono i presupposti giuridici per evidenziare delle responsabilità in capo ai superiori che costringono con disposizioni di servizio il personale infermieristico a usare gli apparecchi di brillanza in sala operatoria al posto del tecnico di radiologia.
 
4. La teleradiologia e il più grande centro di refertazione radiologica degli Stati Uniti. Non molto tempo fa ho letto un articolo di economia dal titolo "il boom dell'offshoring" incentrato sulla propensione da parte delle grandi e medie aziende americane e britanniche a terziarizzare verso i paesi in via di sviluppo alcuni servizi che non richiedono la vicinanza fisica del cliente. Tra questi veniva citato il caso del paziente che fa una lastra: "se fate mente locale, ammetterete che quasi mai avete incontrato il medico che steso e firmato il referto". Al Massachussets General Hospital "digitalizzano le lastre e le inviano a un centro medico in India, dove radiologi che costano tre volte meno di quelli di Boston stilano referti che vengono rispediti indietro sempre elettronicamente. Stessi tempi di risposta, stessa qualità del servizio, risparmi di oltre il 70%." In tempi di spending review e cioè revisione della spesa con invarianza dei servizi ai cittadini perché non pensarci? Rischio radiologico non c’è più, i tecnici sono sostituiti dagli infermieri, i raggi si sparano anche senza i radiologi, lasciamo solo l’interventistica radiologica e una banda larga!
 
5. La chiusura dei laboratori analisi e i POCT (Point Of Care Testing): altro caso di esercizio abusivo della professione? Sempre in tema di rapporto tra professioni sanitarie desidero far presente anche un'ulteriore causa di attrito o di rischio di contenzioso legale. Sempre più aziende sanitarie, soprattutto a seguito di riorganizzazioni dei piccoli presidi ospedalieri, chiudono nelle ore notturne e nei giorni festivi i laboratori analisi demandano al personale infermieristico - in genere del Pronto Soccorso o del Punto di Primo Intervento - l'esecuzione di esami ematochimici urgenti attraverso dei macchinari denominati POCT. Anche qui, la giurisprudenza è varia: quella penale prevede l'esercizio abusivo di professione (Trib. Montepulciano), quella civile del lavoro è di diversi orientamenti su chi compete lo svolgimento della mansione. Che fare dunque di fronte a direttori sanitari che adottano provvedimenti che pongono in capo agli infermieri attività comunemente svolte dal Tecnico di laboratorio biomedico? Perché non si fa un grande laboratorio a valenza regionale dove si fa anche ricerca e a livello aziendale si introducono i POCT in ogni unità operativa? Del resto molti esami non sono accessibili anche presso le farmacie dove non è presente né laboratorio analisi né tecnici né biologi, perché ciò non possiamo renderlo possibile presso la farmacia ospedaliera? Altri risparmi sul personale di laboratorio e sui macchinari e reagenti derivante dall’economia di scala.
 
6. Dirigente, manager e professional: tre ruoli in uno! Un aspetto che mi continua a colpire è che in Italia i medici sono considerati tutti dirigenti. Mi chiedo: un medico neoassunto è subito inquadrato come dirigente, ma chi dirige e di cosa è responsabile se non dei propri atti professionali? Tale paradosso mi è parso ancor più evidente nella recente richiesta di applicazione da parte dei sindacati medici del Dlgs 66/2003 di recepimento della Direttiva europea sull’orario dei lavoro. Le argomentazioni della Commissione Europea alla base della segnalazione di infrazione all’Italia si fondano, infatti, sul fatto che “i medici che lavorano per la sanità pubblica italiana, tuttavia, sono classificati ufficialmente come “amministratori" senza godere necessariamente di prerogative dirigenziali o di autonomia rispetto al proprio orario di lavoro” (QS del 30 maggio 2013). In secondo luogo – e questo è ancor più accentuato dall’impianto “amministrativo/ministeriale” della riforma Brunetta – mi chiedo che senso abbia l’attribuire a un direttore di struttura complessa, che a mio parere in ambito sanitario dovrebbe essere il miglior clinico o chirurgo, una serie di adempimenti e responsabilità amministrative di cui non potrà mai esserne padrone o competente per formazione professionale. Per esempio, un cardiochirurgo dalle “mani sante” non dovrebbe stare in sala operatoria e salvare vite umane la maggior parte del tempo anziché impegolarsi con procedimenti disciplinari, aspetti organizzativi del reparto, riunioni e attività riservate al management? Penso che il problema della qualifica sia qui legato alla giusta retribuzione che ritengo debba valere per la professionalità espressa della scienza medica e non per il valore gestionale di tale ruolo.
 
7. La prescrizione infermieristica, perché no? Leggo anche su questo Quotidiano della difficoltà che la professione medica inizia a lamentare per la prospettiva di carenza di professionisti (effetto del numero chiuso ai corsi universitari) e per la femminilizzazione della categoria. Ancora, la burocratizzazione della loro attività è sempre posta come limite al pieno e miglior esercizio della loro professione. Insomma, sempre meno medici e sempre più incombenze amministrative. Perché quindi non sgravare la medicina di parte di queste attività? In verità ho provato a dare una mano ma, ahimè, inutilmente. Nei diversi pareri che mi sono trovato a dare in ambito sindacale su norme nazionali o regionali avevo proposto più volte che la prescrizione di alcuni presidi fosse passata ai professionisti infermieri. Penso, ad esempio, ai presidi per urostomie o colonstomie, ai semplici pannoloni che sono di uso quotidiano per l’infermiere. Tutti presidi che, attualmente, debbono essere prescritti da medici. In altri Paesi anche le terapie continuative (per diabetici, ipertesi, …) sono prescrivibili da infermieri appositamente formati. Perché in Italia non si vuole andare nella stessa direzione? Ne trarrebbero vantaggio in primis i medici a cui resterebbe più tempo per la clinica e per una valutazione professionale più accurata che li metta al riparo da inutili contenziosi (responsabilità professionale) e anche i pazienti che avrebbero più attenzione e un miglior servizio.
 
Sono consapevole di aver toccato tanti e diversi argomenti magari con superficialità e poca competenza ma, come si può notare dalle suesposte osservazioni/provocazioni, il confine tra le varie professioni sanitarie non è ben definito e non è ben chiaro nemmeno giuridicamente. Mi pare manchi chiarezza sulle "regole di ingaggio" che il professionista può far valere all'interno dell'organizzazione sanitaria. Spesso come infermieri ci troviamo di fronte a diversi Direttori Sanitari che, secondo la sensibilità propria ma ancora più secondo esigenze di bilancio, attuano riorganizzazioni più o meno "politicamente corrette" o "giuridicamente corrette" nell'attribuzione di mansioni e competenze professionali che ci espongono, come i tecnici di radiologia di "Marlia", a rischi di denuncia magari da altri professionisti sanitari. Che fare dunque? Mandare a gambe all'aria tutto il sistema perché tutti siamo colpevoli di aver invaso il campo dell'altro? Farci male gli uni e gli altri? o vogliamo ripensare i confini dell'agire professionale per renderli effettivamente compatibili con l'organizzazione che nel tempo è cambiata? Il tavolo sulle competenze avanzate era un primo inizio che, ad oggi, non è mai iniziato.
 
 
 
Dr. Andrea Bottega 
Segretario Nazionale Nursind

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