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Lunedì 16 SETTEMBRE 2013
Donne in medicina. Molti interrogativi e qualche certezza

Esiste una specificità femminile in una sanità sempre meno solidale, in una medicina sempre più dominata dal mercato? Le donne sapranno rispondere meglio proprio per le loro caratteristiche neuropsichiche? Le donne ripeteranno i vizi della medicina “maschile”?

Quando insediai la Commissione pari opportunità dell’Ordine di Firenze, molti anni orsono, posi una domanda che riappare nel dibattito ospitato da QS sulla “femminilizzazione” della professione medica. Entro pochi anni il numero delle donne iscritte agli Ordini supererà quello degli uomini; ciò influirà sulla medicina? La professione sarà esercitata nello stesso modo? Fa differenza che il medico sia uomo o donna?
 
La cosiddetta “pari opportunità” è questione di organizzazione sociale. Gli asili nido, la partecipazione del padre all’accudimento dei figli, la gestione della casa, i concorsi, le carriere e così via, sono problemi difficili ma non insolubili se vi è l’impegno di tutti.
Tuttavia la parità è un processo di lunga durata. Se penso alla mia generazione, le nostre madri hanno conquistato il voto (mia madre votò per la prima volta per la repubblica a 37 anni), ottenuto il diritto di famiglia, sconfitto il “delitto di onore”; le donne della nostra età hanno conquistato il divorzio, la parità sessuale, la parità legale sul lavoro e nei concorsi; l’uguaglianza ha storia troppo breve per darla per scontata. Però procede con troppa lentezza, frenata da schemi culturali maschilisti e, perfino, da un costume sessuale tuttora ancorato al concetto di peccato. Tra stalking e delitto d’onore la differenza è minima. Le donne inoltre pongono seriamente il problema del tempo da dedicare al paziente, questione che esse sentono di più per la loro abitudine a occuparsi di molte faccende.
 
Tuttavia, quand’anche fossero risolti tutti i problemi delle giovani donne, con ciò non si risponde alla domanda di partenza. Che è diversa anche dalla medicina di genere, altra questione molto seria posta dalle donne. La medicina è maschilista perfino sul piano scientifico e non v’è dubbio che una migliore comprensione della farmacologia o della fisiopatologia applicata al genere porterebbe notevoli vantaggi clinici. Nel Consiglio Sanitario Toscano esiste una commissione per la medicina di genere che sta per pubblicare una prima review su questo tema. Ma neppure questa risponde alla domanda iniziale che  inerisce la stessa epistemologia della medicina.
 
La medicina moderna nasce colla vittoria del riduzionismo e trionfa grazie alla tecnologia, al prezzo di trascurare gli aspetti relazionali dell’assistenza. Storicamente le donne hanno svolto il ruolo del “prendersi cura”, di chi aiuta secondo un’arte materna, scevra dal paternalismo maschile. La prevalenza femminile riporterà la medicina nell’ambito del prendersi cura, senza trascurare le vittorie che il riduzionismo tecnologico garantisce e promette? Esiste un approccio di genere capace di superare l’ontologia nomotetica verso la complessità biografica? Si chiede Teresita Mazzei, “quale valore aggiunto possono proporre le donne per una migliore efficacia organizzativa del sistema e per l’approccio al paziente?”
 
La medicina attraversa una delle tante crisi epistemologiche del suo secolare cammino. La tecnica influenza  la procedura assistenziale mentre nuovi parametri metodologici nascono dalle conoscenze sui rischi primari e dal rapporto tra genetica e epigenetica, dall’intreccio tra fenotipo e ereditarietà. La medicina è complessa e esige un approccio sistemico sul piano cognitivo e olistico su quello umano, la medicina narrativa. Una “cura” sempre più tecnologicamente sofisticata richiede un “prendersi cura” e, nello stesso tempo, una attenzione alla collettività, ai costi, ai nuovi bisogni, alla domanda sociale, all’immaginario collettivo, al diritto e alla politica.
 
Esiste una specificità femminile in una sanità sempre meno solidale, in una medicina sempre più dominata dal mercato? Le donne sapranno rispondere meglio proprio per le loro caratteristiche neuropsichiche? Le donne ripeteranno i vizi della medicina “maschile” o  sapranno far prevalere una medicina ermeneutica, capace di cogliere, al di là delle apparenze misurabili della malattia, la soggettività irrepetibile del malato?
Sostituire alle ontologie della malattia una sorta di protocollo della soggettività.
 
Alcune donne considerano il prevalere della componente femminile come una opportunità. Dovremmo ascoltare il parere delle giovani donne, che rappresentano il futuro della professione. Le colleghe meno giovani possono dare consigli ma il problema è generazionale. Quale medicina hanno in mente le giovani colleghe? Collegando l’interrogativo iniziale con quest’ultimo ne potremmo sapere di più. Non solo sul rapporto tra genere e medicina ma su che genere di medicina vorremmo.
 
Antonio Panti
Presidente Ordine dei medici di Firenze

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