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Mercoledì 04 DICEMBRE 2013
Fibrillazione atriale. Con Edoxaban rischi di emorragie ridotti fino al 50%

Il dato riguarda Egage AF-Timi 48, uno studio clinico condotto su 21.105 pazienti in 46 Paesi e 1.400 centri di ricerca. Ad oggi, solo il 48% di quel milione di italiani che soffre di fibrillazione atriale è sottoposto a trattamento anticoagulante. Con edoxaban la prevenzione dell’ictus diventa più aderente ai bisogni dei pazienti.

Sono più di 1 milione gli Italiani a soffrire di fibrillazione atriale (FA), patologia che si associa ad un alto rischio di ictus cerebrale e/o eventi embolici sistemici, soprattutto negli over-65. Tuttavia solo il 48% dei pazienti è sottoposto a trattamento anticoagulante, anche a causa della complessa gestione della terapia farmacologica finora disponibile. Appena pubblicati sul New England Journal of Medicine, i risultati di Engage AF-Timi 48, il più ampio studio clinico mai condotto finora sulla FA (21.105 pazienti in 46 Paesi e 1.400 centri di ricerca), offrono una risposta concreta ai bisogni irrisolti nella gestione della patologia e consentiranno ai clinici di personalizzare il trattamento in base al profilo di rischio individuale dei pazienti.
Il trial ha dimostrato che edoxaban, inibitore diretto del fattore Xa, in monosomministrazione giornaliera ha raggiunto l’endpoint primario di non inferiorità rispetto al warfarin per la prevenzione dell’ictus e degli eventi embolici sistemici in pazienti con FA non valvolare, dimostrando peraltro superiorità per quanto riguarda i sanguinamenti maggiori, riducendoli dal 20 al 50% a seconda del dosaggio utilizzato.
 
Engage AF-Timi 48 (Effective aNticoaGulation with factor xA next GEneration in Atrial Fibrillation-Thrombolysis In Myocardial Infarction 48) ha preso in esame tre diversi gruppi di pazienti. “Il primo gruppo – ha sottolineato Raffaele De Caterina, professore Ordinario di Malattie dell’Apparato Cardiovascolare all’Università di Chieti – è stato sottoposto a trattamento con una singola somministrazione giornaliera di edoxaban 60 mg, il secondo con una singola somministrazione giornaliera di edoxaban 30 mg, il terzo con warfarin, per una durata mediana di 2,8 anni. Tra i pazienti trattati con edoxaban 60 mg l’incidenza annuale di ictus è stata dell’1,18 % rispetto all’1,50 % nel gruppo warfarin, con una significativa riduzione del 20% degli eventi emorragici maggiori. Il trattamento con edoxaban 30 mg ha registrato un’incidenza annuale di ictus o di eventi embolici sistemici dell’1.61% rispetto all’1.50% del warfarin, con una significativa riduzione del 53% degli eventi emorragici maggiori. Anche l’incidenza annuale di morte cardiovascolare è stata significativamente ridotta: 2,74% con edoxaban 60 mg e 2,71% con edoxaban 30 mg, rispetto al 3,17% con warfarin”.
 
“Grazie a questi risultati – ha continuato De Caterina – edoxaban può costituire una nuova opzione terapeutica importante per la prevenzione dell’ictus e degli eventi embolici sistemici, riducendo significativamente il rischio di emorragie rispetto al warfarin . È stato inoltre identificato un adeguato regime di aggiustamento della dose per i pazienti con fattori associati ad un maggior rischio di sanguinamento, come la compromissione della funzionalità renale, il basso peso corporeo, o trattamenti concomitanti con alcuni farmaci”.
 
“I risultati dello studio Daiichi Sankyo – ha sottolineato Alessandro Granucci, presidente Feder-AIPA (Federazione Associazioni Italiane Pazienti Anticoagulati), che raggruppa 65 associazioni di volontariato sparse nella penisola – sono una buona notizia per i pazienti che necessitano del trattamento anticoagulante, perché edoxaban promette di semplificare la gestione quotidiana della patologia, migliorando la qualità della vita. Essere un paziente in trattamento anticoagulante significa infatti vivere una condizione di rischio continuo, e può comportare un vero e proprio salto nel buio”.
 
L’ultima fotografia sui timori, le difficoltà e il vissuto dei pazienti anticoagulati è stata scattata da Feder-AIPA a novembre 2013, attraverso una ricerca che ha coinvolto circa 56.000 associati. Per oltre il 60% delle Sezioni intervistate, la problematica più difficile da gestire è la preoccupazione dei pazienti per le improvvise variazioni dell’INR (un modo di esprimere il tempo di protrombina e una misura dell’intensità e dell’adeguatezza dell’anticoagulazione). Questa preoccupazione è sentita soprattutto nelle regioni del Sud, dove i centri ospedalieri specializzati nell’assistenza agli anticoagulati sono meno diffusi. Oltre il 70% delle Sezioni evidenzia che la seconda maggiore difficoltà per i pazienti è doversi sottoporre con frequenza a prelievi per il controllo dell’INR. Per circa il 60% delle Sezioni la terza principale difficoltà è ricordarsi di dover assumere il farmaco.
 
“La nostra ricerca – ha proseguito Granucci – mostra le oggettive difficoltà del trattamento con warfarin, come i frequenti monitoraggi dell’INR e le interazioni con gli alimenti, e ancora un importante gap informativo dei pazienti, in particolare per quanto riguarda il significato delle fluttuazioni dei valori dell’INR. Mentre resta una questione emergente, quella dell’aderenza terapeutica: spesso i pazienti dimenticano di assumere il farmaco e sottovalutano i benefici della terapia, specie nel caso di patologie silenti e di cui non si percepisce alcun sintomo, come la fibrillazione atriale. Su questi fronti Feder-AIPA continuerà, in tutti i centri ospedalieri dove è presente, la sua opera d’informazione, di divulgazione e di counseling al fianco del paziente anticoagulato, senza mai sostituirsi al medico e al personale sanitario dedicato”.
 
“La filosofia di Daiichi Sankyo – ha dichiarato Antonino Reale, amministratore delegato Daiichi Sankyo Italia – è quella di offrire accanto ai farmaci, anche servizi specificamente mirati a medici e pazienti con l’obiettivo di contribuire a migliorare la cura di determinati ambiti patologici. Per questo, accanto al nuovo farmaco edoxaban – di cui contiamo di iniziare la procedura di registrazione nel primo trimestre del 2014 in Europa, negli Stati Uniti ed in Giappone, rendendolo disponibile in Italia a inizio del 2015 – siamo impegnati a sviluppare servizi mirati al paziente, che possano colmare i bisogni identificati dalla ricerca Feder-AIPA”.
 
“I nuovi anticoagulanti orali, come dimostrato dallo studio ENGAGE AF-TIMI 48 – ha concluso Gualtiero Palareti, professore di Malattie dell’Apparato Cardiovascolare all’Università di Bologna– non solo possono almeno in parte sostituire l’attuale trattamento, ma consentono finalmente di ampliare la fascia di popolazione ancora non protetta, che potrà essere curata adeguatamente con una terapia efficace, sicura e molto più semplice da utilizzare sia per i pazienti che per il sistema salute. L’attuale terapia anticoagulante richiede infatti un’organizzazione sanitaria piuttosto complessa, essendo necessari frequenti controlli del sangue e una conseguente regolazione del dosaggio farmacologico, per ridurre le complicanze connesse all’impiego degli antagonisti della vitamina K”.

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