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Lunedì 05 MAGGIO 2014
Le competenze avanzate: un passo avanti o un passo indietro?



Gentile direttore,
ho letto con molto interesse le ultime lettere pubblicate. Mi hanno particolarmente colpito gli articoli del dott. Caramello del 10 Aprile e del dott Fabrizio Russo del 14 Aprile scorsi. Ambedue contengono e sviluppano argomentazioni che mi hanno fatto riflettere.

Mentre il dott. Russo scrive “In un’ottica gattopardesca, occorre mantenere, lasciare invariato il modello (gli standard) e dirci soddisfatti dei risultati conseguiti, ma razionalizzando (addirittura!) le risorse a disposizione di questo modello.”, il dott. Caramello scrive “Poi non si fa nulla, si ulula alla luna: in sanità, come altrove, bisogna cambiare tutto senza cambiare nulla, l’importante è non rimetterci in termini non economici ma di potere.”
In ambedue sento una sorta di delusione, se mi è permessa l’interpretazione personale, rispetto ad una società che non riesce a superare meccanismi antichi, per sciogliere le catene sempre più opprimenti di burocratismi e dinastie organizzative. Aggiungerei anche un certo sconforto rispetto ad una agognata, ma perlopiù inesistente meritocrazia. Potenziale soluzione di molti mali.

Credo sia oggettivamente indispensabile la richiesta da parte del sistema del controllo di bilancio ed una più precisa razionalizzazione della spesa; data per certa l’acquisizione da parte dei sistemi dei criteri di appropriatezza ed economicità, perché ci troviamo davanti ad un sistema che appare sempre meno equo? A distanza di oltre 20 anni dalla riforma Bindi, il sistema dovrebbe essere virtuoso; la medicina basata sulle evidenze dovrebbe essere il faro illuminante di ogni dilemma clinico e strategico.

La sensazione è che persista, sempre ed inesorabilmente l”ottica gattopardesca”: la musica è cambiata (forse) ma l’orchestra rimane la stessa, con gli stessi meccanismi e gli stessi obiettivi. Lo stesso nepotismo, gli stessi criteri “a pioggia”, eternamente ingiusti e demotivanti. Non esistono spazi reali, concreti per la meritocrazia. I migliori si avviliscono, si perdono, fuggono. Galleggiano benissimo i mediocri.

Si discute sulle “competenze avanzate”.

A mio parere non esistono altre competenze se non quelle acquisite e riconosciute da percorsi validati, siano i percorsi universitari, l’alta formazione o gli anni di riconosciuta esperienza, basta mettersi d’accordo. Se un professionista ha i requisiti, è competente, se l’infermiere piuttosto che l’ostetrica ha la competenza di eseguire una manovra o tecnica (vd ecografia) perché mai impedirglielo? Se ne assumerà la responsabilità come di ogni altro atto. Una tecnica si acquisisce, ma non comporta necessariamente l’assunzione di una funzione che non ho. L’aver acquisito la competenza tecnica nell’esecuzione del prelievo arterioso, non ha comportato l’acquisizione delle funzioni tipiche dell’anestesista. Se ho un master universitario in lesioni cutanee avrò certamente le competenze per indicare il percorso terapeutico più idoneo.

E la discussione si sposta di nuovo sul saper fare piuttosto che sui contenuti del saper essere. Per quanto possa apparire viceversa, o meglio si voglia far apparire la discussione sulle competenze avanzate come una conquista da parte delle professioni, io sento forte un sentimento nostalgico, soprattutto da parte dei colleghi infermieri. Nostalgia dei confini netti, delle definizioni, nostalgia di un mansionario che dica cosa posso o non posso fare, che ha come risultato un rigurgito di sussidiarietà. Nostalgia generata dalla perdita di identità: chi è l’infermiere? Semplice: l’infermiere fa le punture.

Come spesso accade viene scambiato lo strumento con l’obiettivo. Anche una scimmia più imparare a fare le punture, ma non potrà mai avere le competenze necessarie per gestire il processo di somministrazione della terapia. Senza dover “invadere” le funzioni altrui, ma in un gioco delle parti virtuoso. Vorrei tanto che non si discutesse sulle “competenze avanzate” ma sulla valorizzazione delle funzioni dei professioni, evitando di creare ulteriori divisioni e fratture su ciò che mi compete o meno, in un’ottica di sinergia.

La mia vita da infermiera inizia sotto l’ala del mansionario. Allora sarebbe stato impensabile per un infermiere eseguire molte delle attività che oggi sembrano ovvie. Ma la tecnica si acquisisce con facilità, la competenza che una funzione deve sottintendere no. Richiede molto altro.
Allora, se all’interno di una équipe multidisciplinare abbiamo un medico esperto in risk management è efficace ed economico (e molto altro di più) che gli venga riconosciuta e implementata la sua “mansione” specifica in quel contesto. Cosa cambia concettualmente se a essere esperto in risk management è l’infermiere? Dov'è l'impedimento?

I professionisti come le organizzazioni, tutti quanti affermano di mettere al centro del proprio operato “la persona”. Affermazioni troppo spesso vaghe, obbligatorie e di copertina, se non vengono supportate da criteri etici e scelte concrete, consequenziali.Ma non mi accontenterei di codici etici “brochure”. Meravigliose opere concettuali, talvolta vere e proprie opere d’arte, sempre migliorabili, ma che troppo spesso salvano solo l’apparenza, se non sono interiorizzate e verificate con criteri inopinabili.

E se sono persone coloro che si rivolgono al sistema, sono persone anche coloro che lavorano nel sistema sanitario, come in ogni altro sistema.
“Agire in modo da trattare l’umanità, tanto nella tua persona come nella persona di ogni altro, sempre anche come un fine e mai unicamente come un mezzo” (E Kant). Come può un sistema sostenere di mettere al centro “la persona”, quando non è capace di costruire un sistema meritocratico valido, che ri-conosca coloro che abitano il sistema, rispettando e valorizzando le reali competenze e non i limiti imposti? Se concordiamo con questi principi, se i codici deontologici, le carte dei diritti di ogni esser umano sono il nostro punto di riferimento universale, tutto andrà di conseguenza.

Se l’atteggiamento nei confronti dei professionisti rimane inquisitorio, non credo si possa sostenere che il sistema rispetti veramente quei principi che declama nei codici etici e nelle carte dei servizi. Rimane una contraddizione di fondo. Rispetto alle organizzazioni, i sistemi di accreditamento fondano la misurazione della qualità sulla presenza o meno di protocolli e procedure, spesso senza comprenderne il significato. I requisiti e di conseguenza gli indicatori rimangono squisitamente di prodotto, gli out put, raramente gli out come. Non rientra nei concetti fondamentali della qualità la capacità del sistema di rendere possibile l’autodeterminazione delle persone in base ai bisogni espressi, e dei professionisti in base alle reali competenze, appiattendo il sistema secondo criteri di categoria.

Spesso non si valorizza la possibilità di autodeterminazione di coloro che entrano in contatto con il servizio, omologati in percorsi standard definiti dal concetto di “accesso improprio”. Come può un sistema che sostiene di mettere al centro della propria mission “la persona”, per poi definire una richiesta di aiuto un “accesso improprio”? Se “la persona” è un valore assoluto per l'organizzazione, la sua sofferenza deve essere rispettata, anche quando “la persona” non riesce a entrare dalla porta giusta nel percorso predefinito. Per esperienza personale vi garantisco che non è così semplice indovinare l’ingresso ai servizi. Aumentano le divisioni, linee, celle, sottocelle, sottogruppi, livelli di intensità…percorsi fatiscenti incomprensibili ai più, muri di gomma per “le persone”, sia che siano clienti esterni che interni.

L’ambito di discrezionalità del professionista si riduce, blindato da protocolli sempre più spesso aziendali, perciò sempre meno condivisi e condivisibili. Spesso il consenso informato non da alternative. Come può essere il reale esercizio della libera scelta del cittadino?

Così i modelli organizzativi diventano gli obiettivi aziendali, e continuiamo a scambiare lo strumento con lo scopo. Diventano dei format ai quali adeguarsi, indipendentemente dalla reale efficacia, nei quali i professionisti perdono l’identità, l’autonomia e la possibilità di autodeterminazione. Credo che modelli organizzativi dovrebbero essere lo strumento che i professionisti utilizzano a loro discrezione per il raggiungimento dello scopo che l’organizzazione di prefigge. Attualmente sono piuttosto obiettivi di budget. Questo meccanismo alimenta nuovamente il sistema gerarchico tradizionale, bloccando a priori l’espressione e l’empowerment di ogni professionalità e di ogni possibilità di scelta da parte dell’utente.
Queste mie considerazioni vogliono essere trasversali a tutte le professioni, a tutti coloro che collaborano al funzionamento del sistema. Le due dimensioni, persona-utente e persona-sanitario sono un’unica dimensione.

Dott.ssa Cristina Bianchi
Infermiera R.G.S.Q.

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