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Lunedì 05 MAGGIO 2014
Riforme, nuove competenze, neolaureati... ma in sanità il nuovo non avanza



Gentile direttore,
osservare il mondo da una finestra dà la possibilità, a colui che passivamente scruta, di cogliere sottigliezze e dinamiche, che altrimenti non sarebbero possibili, permette cioè di distaccarsi un pochino, il giusto per avere sottomano un quadro chiaro della situazione. E purtroppo questo quadro non è dei migliori: coloro che, come me, sono al termine di un lungo ed arricchente percorso di studi, si trovano di fronte all’ineluttabile dilemma su cosa fare dopo. Non solo la  mancanza di riforme “vere” non aiuta l’Italia a riprendersi dal baratro in cui è caduta, ma spegne il futuro di chi come me è formato a praticare una professione quanto mai ricca e indispensabile quale quella del medico (ma questo vale anche per tutte le professioni sanitarie).

Mi fa effetto sentire parlare di riforme del lavoro, del titolo V, di manovre, di giovani, di opportunità, di co-evoluzione, di nuove competenze, e poi ritrovarsi di fronte alla solita pastoia senza avere risposte né opportunità vere. La parola riforma è più volte utilizzata a sproposito quindi? La triste verità è che il nuovo, se c’è, non avanza. Quali prospettive abbiamo dunque noi, nuovi medici, che ci affacciamo in questo mondo lavorativo in cui l’invarianza vince ogni forma di novità?

Umilmente mi sento di rivolgere questa domanda, naif ma sincera, a coloro che sono esperti, che sanno, che sono al di là della scrivania, vorrei chiedergli quindi perché si parla e si teorizza tanto su sanità, borse di specializzazione e riforme se poi non si propone qualcosa di veramente nuovo, logico, utile e sensato? Perché riscaldare la solita minestra fatta di vecchie abitudini incancrenite o schemi e dinamiche di rivalsa, invece di presentare qualcosa che possa essere realmente diverso? Alla soglia del terzo millennio, e cito le parole del prof Cavicchi, siamo ancora con la mentalità novecentesca e questo non funziona più.

Ripenso a quando, da bambina, raccoglievo oggetti apparentemente inutili sulla spiaggia con mio nonno. Lui aveva la capacità di cogliere l’utile in ciò che di utile non aveva più, era in grado di dare una nuova vita agli oggetti, li ricollocava creava una nuova opera, permetteva insomma che il vecchio lasciasse spazio al nuovo, attraverso nuovi schemi di pensiero e originalità. È un concetto così tanto lontano dalla situazione attuale? Può questa metafora in qualche modo dare spunto e permettere un rinnovamento di ciò che c’è  per creare ciò cha potrebbe essere? Abbandonare vecchi schemi di pensiero, vecchie diatribe professionali potrebbe dare spazio a qualcosa di diverso e funzionale sempre nell’ottica di un riutilizzo di risorse che già ci sono per garantire un ormai chimerico diritto alla salute e per noi una prospettiva lavorativa consona alla nostra formazione?

Chiedo scusa del mio atteggiamento possibilista, ma credo fermamente che per raggiungere il nuovo si debbano modificare schemi novecenteschi che l’attualità ha confermato inutili se non addirittura dannosi per noi tutti: società, medici, infermieri e ammalati.

Eleonora Franzini Tibaldeo
Studentessa in medicina, Torino

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