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Mercoledì 14 MAGGIO 2014
La complessità in medicina è un fatto. Ma come possiamo gestirla?

Le Facoltà di medicina continuano a sfornare, nonostante la complessità, “medici semplici” cioè formati ancora al nozionismo e al riduzionismo biomedico della tabella 18. Ma la via non è comunque quella di immaginare un “super manager” oppure di concentrarsi solo sugli aspetti economici od organizzativi della complessità

A giudicare dai congressi medici e da alcune proposte in circolazione colpisce come l’idea di “complessità clinica ” tenda a coniugarsi con quella di “gestione” della cura:
· Fadoi ha proposto di istituire dei super manager della “complessità clinica”(QS 10 maggio)
· Cipomo si appresta a discutere di complessità oncologica e disostenibilità (QS 13 maggio)
· la proposta del'Clinical decision support system', riguarda la gestione dei dati clinici dei pazienti (QS 13 maggio)
 
Sulla complessità vorrei premettere tre cose:
· nasce con il dibattito sulla nuova biologia negli anni ‘70,  in Italia all’incirca 15 anni più tardi ma come  discussione epistemologica
· la medicina  nei suoi confronti  ancora oggi a differenza di molte altre discipline si dimostra piuttosto in ritardo  nel comprenderne la  profonda  portata innovatrice
· personalmente mi sono  formato alla  complessità  e ho avuto la fortuna di avere maestri del calibro di Prigogine, Morin, Von Foerster, Atlan, Stengers, Varela, Ceruti e altri.
 
Sulla idea corrente di “complessità clinica” direi che essa si rifà dalla definizione di “malato complesso” che ne dà l’Agency for Healthcare Research and Quality(AHRQ): “una persona affetta da due o più malattie croniche, in cui ciascuna delle condizioni morbose presenti è in grado d’influenzare l’esito delle cure delle altre coesistenti, attraverso varie modalità: la limitazione della speranza di vita, l’aumentata morbilità intercorrente, le interazioni tra terapie farmacologiche ,l’impossibilità del pieno impiego di cure adeguate per controindicazione ecc”.
 
Questa definizione in realtà non coglie il significato che i miei maestri davano alla complessità perché  è una definizione di complicazione patologica che ragiona come se a  “più malattia” corrispondesse “un grado maggiore di complessità” quando a “più malattia” corrisponde  “un grado maggiore di complicazione clinica”. Per avere una definizione corretta di complessità bisognerebbe  includere nelle definizioni patologiche  tutte le variabili che predicano il malato come essere e persona e che predicano il contesto in cui si trova il malato, chi lo cura, dove avviene la cura, come è organizzato il servizio che lo cura  e quanto costa curarlo. La complessità è  molteplicità di variabili di natura diversa tra loro interagenti. Il grado di complicazione clinica non è sufficiente a definire la complessità di un malato. Essa resta  una parte dell’intero ma  non è l’intero.
 
Vediamo le proposte:
· Fadoi  fa un passo in avanti rispetto alla definizione della AHRQ (del resto essa non è nuova a questa discussione) e include correttamente nella sua idea di complessità clinica le variabili organizzative  gestionali ed economiche dei trattamenti fino a dedurne la necessità di far “gestire” la complessità ad una figura creata ad hoc, un super manager con competenze cliniche e manageriali.
· Cipomo, preoccupata dei costi delle cure, ha una idea analoga di complessità oncologica ma gioca le sue carte sulla razionalizzazione dei modelli organizzativi e sulla sostenibilità.
· La proposta del 'clinical decision support system', per la gestione dati clinici dei pazienti è invece una risposta del tutto coerente con la definizione di “malato complesso” della AHRQcioè è un sistema interconnesso che partendo dalla gestione informatizzata dei dati clinici dei singoli pazienti restituisce in automatico, direttamente nel workflow dei clinici, istruzioni per la loro “gestione ottimale”. Il suo punto debole è probabilmente  la  metodologia di base  EBM  che proprio il “malato complesso” ha dimostrato essere in larga parte lacunosa e per certi versi poco affidabile. La proposta comunque   tenta di affrontare la “complessità clinica” offrendo al medico  un supporto  “gestionale” informatico.
 
A fronte di  una comune “complessità clinica”, abbiamo tre risposte “gestionali” diverse...qual è quella giusta? I miei maestri mi avrebbero sicuramente rammentato che la complessità ha una sua propria logica e una sua propria epistemologia che non bisogna tradire pena la sua negazione. Una volta in un convegno sulla complessità, ebbi una accesa discussione con Borgonovi (per altro relatore  al congresso Cipomo) perché sosteneva che per governarla bisognava semplificarla il più possibile. In realtà per non tradire l’idea di complessità  non si dovrebbe semplificare il mondo riducendolo ad un pensiero semplice ma si dovrebbe complessificare il pensiero semplice per governare la complessità del  mondo .
 
Torniamo alle proposte:
· l’idea del super manager è certamente una semplificazione, i miei maestri l’avrebbero definita una “non soluzione” che ripropone esattamente ciò che la complessità mette in discussione, vale a dire l’illusione di governare la complessità con una leva archimedea, la creazione di un luogo fondamentale per conoscere e governare qualcosa di “eccentrico” cioè per sua natura senza un centro e con mille centri, la creazione di uno specialista ad hoc che sopravviene a medici epistemicamente invarianti ecc.
· L’idea di Cipomo sostanzialmente delimita la questione della complessità a come rendere sostenibili le cure, anche se la  complessità oncologica non è solo un problema di gestione dei costi ma è anche ben altro
· Il clinical decision support system è una proposta che si riferisce (pur con dubbie metodologie) al clinico mettendogli a disposizione uno strumento per gestire meglio il malato.
 
E allora? Allora se è vero che dobbiamo complessificare il nostro pensiero per “governare” più che “gestire la complessità del mondo bisognerebbe chiedersi come si complessifica il pensiero medico cioè come si riforma il suo storico riduzionismo clinico dal momento che l’idea di gestione clinica va ben oltre la clinica in quanto tale.
 
In ragione di ciò, seguendo l’insegnamento dei miei maestri di complessità, indicherei la strada della rieducazione della clinica alle logiche della complessità e quindi insegnerei ad ogni medico a pensare il malato e la sua cura in un modo diverso da quello tradizionale. Purtroppo le facoltà di medicina, sono lontano mille miglia da questo rinnovamento culturale e continuano a sfornare, nonostante la complessità, “medici semplici” cioè formati ancora al nozionismo e al riduzionismo biomedico della tabella 18 .. per poi sottoporli, come propone Fadoi, alla gestione di improbabili super visori. L’altro ieri, a proposito di congressi, sono stato ospite di quello dell’Aaroi dove si è parlato con grande qualità argomentativa dei rapporti tra responsabilità, dirigenza  e gestione. Intervenendo ho spiegato il significato della mia idea di “autore” cioè di un medico in grado di governare la sua autonomia con la responsabilità rispetto tanto alla complessità ontologica del malato, quanto a quella del contesto in cui opera.
 
Oggi a mio parere non è più possibile esercitare una “professione clinicamente puradal momento che oggi non è più possibile fare medicina supponendola senza alcun limite. Aggiungo che questo, secondo i miei maestri, non sarebbe necessariamente uno svantaggio dal momento che la loro lezione più importante è il poter trasformare un limite in possibilità. L’autore garantisce con nuove prassi cliniche una medicina possibile rispetto alla complessità del malato.
 
Ebbene questa possibilità non può essere delegata a nessun super gestore, pena la banalizzazione grave della  professione medica. Se i limiti non saranno autogovernati da ogni medico, nel senso di ricavarne sul campo nuove possibilità professionali, i medici saranno i limiti che i super manager dovranno gestire.
 
Ivan Cavicchi

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