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Sabato 31 MAGGIO 2014
Il nuovo Codice deontologico dei medici. Tra modelli irreali e difficile equilibrio delle regole

Oggi il paziente chiede al medico di soddisfare una domanda di salute a volte è impropria, pena la degenerazione del rapporto di fiducia. Occorre restituire al medico maggiore serenità rafforzando un contesto ben chiaro di responsabilità attraverso linee guida e a codici comportamentali. Ma con quale livello di flessibilità o rigidità?

Il tagliando di manutenzione appena effettuato al pur già valido Codice deontologico, check up periodico sull’evangelico “medice cura te ipsum”, vuole rispondere ai cambiamenti in atto nella società e nel sistema salute. Il mutamento forse più significativo è nel rapporto tra medico e paziente. Storicamente una sorta di alleanza basata sul reciproco riconoscimento dei rispettivi ruoli in cui la mutua accettazione dell’asimmetria informativa intrinseca a tale rapporto ha da sempre costituito il collante del forte sodalizio fiduciario del malato verso il suo “agente” medico, al quale quindi demandare la tutela e cura della propria salute. Un mutuo riconoscimento che si è evoluto nei secoli dal paternalismo benevolo di Percival e Bernard ai tempi moderni del consenso informato e dell’equità distributiva collettiva tipica delle sanità pubbliche di oggi.

Ma oggi quell’alleanza, se non proprio rotta, si è andata molto indebolendo, minando quel rapporto fiduciario. L’accettazione di quei codici di asimmetria informativa è sempre più indebolita dalla pletora d’informazioni sullo scibile medico oggi disponibili a tutti su tutto. Di per sé la maggiore possibilità diffusa di conoscere e informarsi, non sarebbe fattore negativo, anzi, portando in teoria a un più efficace rapporto costruttivo tra medico e paziente (bene) “informato”. Se non fosse per la distorta inflazione di domanda impropria che trascina, in quantità e qualità. Che il medico è richiesto dal paziente di soddisfare pena la degenerazione della fiducia verso la sua capacità e pure integrità. Con tutte le conseguenze in reazione che a cascata ne derivano, a cominciare dalla medicina difensiva, una vera piaga per la qualità delle cure e per i conti della sanità.    

Scrive in proposito l’amico Ivan Cavicchi nel suo pregevole intervento del 29 maggio che “un Codice deontologico per essere pertinente non può ignorare ciò che chiede il malato. E che qui cominciano i dolori”. Sottoscrivo. Soprattutto la parte dei dolori. Ciò che chiede il malato è davvero utile alla sua cura ed è concretamente realizzabile? Quindi in che misura tenerne conto? Inevitabile rispondere generalizzando quando si parla di “malati”, data la distanza parecchio elevata tra gli estremi opposti nella curva gaussiana della relativa variabilità socio-culturale. Vanno perciò individuate quelle tendenze generali più o meno preminenti nell’immaginario collettivo.

Allora, più prosaicamente, quanto oggi la proverbiale casalinga di Voghera o il ragioniere di Abbiategrasso chiedono alla medicina e al medico? Come detto, forse troppo. Qui sta il vulnus, i suddetti dolori. L’errata percezione di quel paziente sedicente “informato” della medicina come onnipotente, o quasi, lo trascina in una pretesa infallibilità del medico, il quale se non riesce a guarire o curare finisce con l’essere ritenuto sospettato d’incompetenza, inadeguatezza o disonestà. Estremizzo: nella medicina percepita potere tutto, il fallimento terapeutico è sempre più spesso visto come colpa del medico. Che invece non può e non deve sbagliare mai.

Nella costruzione di questo fantasioso modello iconografico, avvolto dall’“allure” dell’infallibilità, molto pesano pure certe distorsioni dai mass media. Dal Kildare dei telefilm anni ‘60, dottorino infallibile casto e puro che salvava tutti (diabolico il contrappasso per l’attore, avrà in carriera altri due ruoli da protagonista: l’assai copulante Padre Ralph di “uccelli di rovo” e il samurai sanguinario che squartava a sciabolate centinaia di nemici) ai più sporchi odierni Dr. House, ER medici, Grey’s e Co., dall’immagine sofferente e umanizzata. Che, qui sta il paradosso (e la genialità degli sceneggiatori) ne illumina ancora di più l’aureola: il medico comunque non sbaglia, persino quando è umanamente un disastro e frequenta assiduamente e con soddisfazione i sette peccati capitali.

Il “malato” che prende a riferimento questi infallibili archetipi del tubo (catodico) resta così inevitabilmente deluso e arrabbiato. Un sentire concimato poi da quegli episodi di malasanità che sanciscono la destrutturazione deontologica del medico e fiduciaria nella sanità. Un paio di anni fa, ricorderete, ci si mise pure un ministro piuttosto ciarliero, male apostrofando medici (“assatanati di soldi”) e chirurghi (“macellai”). E così crescono le cause legali, soprattutto quelle cosiddette “temerarie”: faccio causa al medico e/o all’ospedale comunque, anche se so di non avere ragione. Inevitabile che il medico, in tale contesto, reagisca arroccandosi in difesa, oltre il “primum non nocere” d’Ippocrate e dell’etica medica. Da qui la medicina difensiva già menzionata.

Pacifico, quindi, dovere restituire al medico maggiore serenità rafforzando un contesto ben chiaro di responsabilità dove il discrimine nei comportamenti avvenga in virtù della sua ottemperanza a linee guida e, appunto, a codici comportamentali accuratamente definiti. Ma con quale livello di flessibilità o rigidità? A che altezza posizionarne l’asticella?

Il grado di flessibilità/rigidità di codici e linee guida sono mutevoli coi tempi e vanno definiti con grande attenzione in particolare in medicina (e sanità), dove è cruciale l’interpretazione del singolo caso. Se le prescrizioni del codice sono troppo vincolanti riducono la possibilità del medico di operare adeguatamente, imponendo camicie contenitive troppo strette che ne inficiano l’efficacia e l’efficienza delle scelte o, paradossalmente, ne invogliano la trasgressione (diceva Pitigrilli che i principi sono come certi paletti: se ci si appoggia troppo va a finire che si piegano). Se invece le regole non sono sufficientemente stringenti fanno evaporare l’effetto d’indirizzo comportamentale voluto, aprendo la porta a distorsioni da eccessivo e pericoloso “laissez faire” e quindi diventando inutili se non dannose.

La difficoltà è quindi nel trovare il giusto punto d’equilibrio tra forza della regola e sua reale applicabilità. A smentire l’eterno conflitto tra teoria e pratica (Marx e Adorno con lo stetoscopio sotto le venerande barbe canute).
È cruciale, insomma, eliminare ogni distonia tra quanto disegnato sulla carta e quanto poi accade davvero nella vita reale. Pena dovere poi giustificarsi come quell’allenatore di calcio argentino, quando dichiarò serio, dopo l’ennesima sconfitta della sua squadra: “Io i miei giocatori in campo prima del via li dispongo perfettamente, purtroppo sono loro che poi al fischio d’inizio si muovono”.

Prof. Fabrizio Gianfrate
Economista sanitario

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